“Erano gli operai a saper parlare meglio di chiunque altro con le autorità comuniste, perché gli esponenti del partito erano convinti che le coscienze degli operai fossero state formate dal regime comunista e quindi fossero più vicine al dialogo con le autorità. Invece la situazione era opposta perché proprio gli operai sono stati la categoria sociale più provata fra tutte durante quegli anni.” Così racconta Andrzej Wajda durante il breve incontro concessomi il giorno successivo dell’applaudita premiere del suo ultimo film “Wałęsa, l’uomo della speranza”, presentato fuori concorso al 70° Festival del Cinema di Venezia. Parole e concetti, quelli del grande regista, che riportano ad un mondo di cortine di ferro, a società che idealizzavano e imponevano con la forza presunte uguaglianze sociali, tempi lontani ma non troppo.
“In quel momento la genialità di Walesa si espresse nella capacità di dialogare con le autorità della Repubblica Popolare di Polonia senza mai arrivare alla rottura. La possibilità che i carri armati arrivassero a Varsavia e nell’intero paese era concreta. I militari russi erano pronti a entrare in Polonia sia da est che dall’allora Germania socialista. Walesa seppe tenere aperto il dialogo con il potere alternando rivendicazioni a parole che tranquillizzavano le autorità. E faceva così anche in privato perché sapeva d’essere spiato. Proprio qui a Venezia mi ha confessato che aveva scoperto un microfono nascosto su una lampada e non l’ha mai tolto utilizzandolo per dire frasi che potevano aiutare la situazione a non degenerare. Così Walesa ripeteva spesso, conscio d’essere ascoltato, che i carri armati russi non sarebbero intervenuti in Polonia perché non ce n’era bisogno. Frasi che erano una sorta di criptica comunicazione col governo polacco. Una tecnica che evidentemente funzionò.”
Lei è sempre stato d’accordo con Wałęsa e con le sue scelte politiche?
“Per un breve periodo sono stato anche il suo consigliere per la cultura ma questa è tutta un’altra storia. Credo sia invece importante sottolineare che fu la persona giusta al momento giusto, il suo successo di leader fu importante perché coincise con la libertà ritrovata per un’intera nazione. Il fatto se poi Wa??sa fosse o non fosse all’altezza della nuova situazione creatasi dopo la caduta del muro non è un tema di cui volevo occuparmi nel film.”
Comunque il tema del ruolo di questo personaggio nella storia polacca emerge all’interno della storica intervista di Oriana Fallaci a Wałęsa. Incontro che Lei ha scelto quale filo conduttore del suo film.
“Quando la Fallaci pose la domanda sul suo futuro, Wałęsa rispose che da allora, ovvero dall’apice del successo in cui era, sarebbe potuto solo scendere perché i tempi stavano cambiando rapidamente ed erano per lui ormai inadatti, non poteva più essere il trascinatore che era stato, la società e i media da quel momento in poi avrebbero sottolineato soprattutto i suoi insuccessi. Sapeva di essere un uomo politico che aveva rivestito la parte di eroe, ma era anche conscio di essere l’espressione di un preciso momento storico. E in fondo perché avremmo dovuto pretendere che si adattasse ad un’altra epoca? Dal punto di vista cinematografico è evidente che ci sarebbero stati altri eroi nazionali polacchi più facili da delineare per un regista perché la loro vita terminava nel momento in cui ottenevano il massimo successo. Quello che a me interessava era raccontare Wa??sa come di un uomo insostituibile. Ovviamente se non fosse esistito il Kor, un’organizzazione creata da intellettuali, pensata per difendere i lavoratori e se non ci fosse stato l’aiuto della chiesa, Solidarno?? non avrebbe mai avuto quel ruolo fondamentale che poi ebbe nella storia polacca.”
Quanto è stato difficile girare un film su un eroe contemporaneo? Complicato relazionarsi con Wałęsa?
“Non era il suo film ma il mio, il produttore mi ha quindi lasciato completamente mano libera. Invece per quanto riguarda la scelta di usare l’intervista della Fallaci è stato un escamotage che mi ha consentito di tratteggiare meglio gli aspetti caratteriali del personaggio. Poi c’è un dettaglio importante da sottolineare ovvero che io ho fatto un film di tre ore ma per ragioni di distribuzione è stato ridotto a due, quindi mancano alcuni episodi che volevo raccontare. Ed anche la scelta del titolo ha a che fare con la comunicazione, se il titolo fosse stato semplicemente “Walesa” il pubblico l’avrebbe catalogato solo come un film storico ancor prima di vederlo, il titolo “Walesa, l’uomo della speranza” penso induca ad una riflessione più ampia.”
Nel film ci sono molte scene con immagini autentiche dell’epoca, sequenze importanti anche perché sono la testimonianza del lavoro fatto allora da quei cameraman polacchi.
“A quei tempi le telecamere potevano essere usate per documentare solo eventi ufficiali e istituzionali. Io arrivai subito a Stocznia Gdanska per riprendere gli eventi. All’epoca ero presidente dell’Associazione Registi polacchi e alle istituzioni dicemmo che il nostro ruolo era quello di far le riprese e che poi sarebbe stato il governo a decidere che fare con quel materiale, ma intanto giravamo.”
In quella Polonia dalla libertà limitata il cinema polacco, grazie a Lei e a molti altri registi di spessore, era una nouvelle vague mondiale. Oggi in una Polonia libera i film prodotti sembrano non aver la forza di superare i confini nazionali e conquistare l’attenzione del pubblico internazionale.
“Vero ma è un fatto che non riguarda solo il cinema. In generale in Polonia stiamo vivendo un periodo di scarso spessore culturale un po’ in tutte le arti purtroppo”, risponde Wajda prima che l’addetta stampa lo requisisca per altre interviste.
Wajda si alza e faccio appena in tempo ad aggiungere “a chi mi chiede dove abito a Varsavia racconto sempre con fierezza che abito a Żoliborz, stesso quartiere di Wajda, e che sicuramente prima o poi incontrerò casualmente il maestro in qualche bar a bere un caffè”.
“E perché no? molto volentieri vengo a bere un caffè con Lei, restiamo in contatto!”, ribatte Wajda sorridente mentre la sua assistente prende una copia di Gazzetta Italia insieme al mio biglietto da visita.
Non so se il mio sogno di un caffè con Wajda si realizzerà mai, ma di certo la sensazione costante che ho quando giro per Zoliborz che Wajda sia in zona e che magari potrei incontrarlo per caso a Plac Invalidow o vederlo seduto a bere un caffè in Plac Wilsona ne esce rafforzata.