Le promesse vengono mantenute: Alberto Sordi torna protagonista di “Finché c’è cinema (…)”. Nella quarta puntata della nostra serie, ho preso in esame gli inizi della carriera del famoso attore, che – come ricordiamo – non furono facili. Passando da un media all’altro, Albertone ottenne fi nalmente un successo spettacolare, diventando non solo il volto di uno dei generi cinematografi ci più importanti e fertili della storia del cinema italiano (la commedia all’italiana), ma allo stesso tempo l’incarnazione simbolica di tutti i vizi, le frustrazioni e le piccole gioie del cosiddetto italiano medio. Ma Sordi è stato davvero in grado di umanizzare, grazie alle sue specifiche qualità d’attore, anche il più grande dei mostri? Chi è Giovanni Vivaldi?
Diciotto anni dopo la prima de ”La Grande Guerra” (1959; Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia), cineasti e pubblico attendevano impazienti il nuovo progetto cinematografico di Mario Monicelli e Alberto Sordi. Nella seconda metà degli anni Settanta l’Italia era sull’orlo della bancarotta morale. Le forti tensioni della realtà socio-politica si potevano percepire quasi ogni giorno dagli abitanti del Belpaese. Un Paese che non volava più felicemente nel blu dipinto di blu (citando il famoso brano di Modugno), ma aspettava inconsapevolmente un collasso ancora più profondo (il rapimento e poi l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, 1978). Ne “La Grande Guerra”, Monicelli e Sordi hanno raccontato in costume una storia estremamente moderna, un’originale elaborazione dei (maggiori) difetti e (minori) pregi del carattere nazionale italiano. Il passato rifletteva su un tragicomico presente. Questa volta, tuttavia, la situazionedoveva essere completamente diversa: il doloroso presente mostrava in bianco e nero che non aveva nessun senso contare su un futuro roseo e pacifico.
“Un borghese piccolo piccolo” (titolo polacco: „Szaleństwa małego człowieka”, ovvero “Le follie di un uomo piccolo”) fu pubblicato nel 1976. Il romanzo d’esordio di Vincenzo Cerami¹, ex allievo di Pier Paolo Pasolini (l’anno di pubblicazione coincide purtroppo con la data della scomparsa prematura dell’autore di “Accattone”), si aggiudicò da subito tutta l’attenzione della stagione letteraria dell’epoca. Lo stesso Italo Calvino notò, che “lo sguardo spietato dell’autore, che affascina i lettori sin dalla prima pagina”. Il piccolo mondo di un impiegato ministeriale non è mai stato così commovente e allo stesso tempo grottesco, macabro, e soprattutto così vicino alla realtà, ai fatti, alle cronache, ma senza scoop giornalistici.
Giovanni Vivaldi – il borghese piccolo piccolo, che ha vissuto in gioventù la povertà rurale e la guerra – si è fatto una vita a Roma. L’uomo è diventato un conformista, un prodotto (o forse meglio una reliquia) di una certa generazione che si venderebbe per meno di un pugno di dollari solo per raggiungere i propri obiettivi. Casa, famiglia, lavoretto al caldo; ogni giorno è una copia del precedente. Ma Giovanni Vivaldi nonostante l’età avanzata non ha mai perso vigore e fiducia nel futuro.
La fine dei dilemmi e delle frustrazioni del protagonista potrebbe essere segnata dalla
promozione socio-professionale del suo amato ed unico figlio, per il quale il padre condivide
grandissime aspettative. La vita di Mario Vivaldi deve elevarsi al di sopra dei triste cliché nei quali è racchiusa l’esistenza di Giovanni, che è pronto a tutto (incluso l’ iscrizione a una loggia massonica) per ottenere ciò che vuole. La disponibilità a compensare le proprie perdite, mancanze e umiliazioni si rivelerà l’elemento fondamentale di questa storia. Ad
eccezione del finale², il film di Monicelli è una trasposizione piuttosto fedele del romanzo di
Cerami. Entrambe le opere – oggi considerate congeniali – raccontano della tragedia e dei traumi sia a livello individuale che collettivo-nazionale.
Come scrisse Monicelli nel suo “L’arte della commedia”: “Volevo fare un film con due facce: una prima parte molto divertente, da commedia all’italiana, con dei tocchi un po’ crudeli […]; e poi una seconda faccia capovolta, piena di sangue e di orrore. Il tutto affidato ad un attore comico. Sordi rimase dapprima un po’ perplesso, poi accettò di fare il film. Anche a lui dovevo dare due volti: quello comico-vile, e quello drammatico”. Questa ”spaccatura” diventa cruciale poiché nei successivi duedecenni il paese era cambiato in modo così radicale che anche le rappresentazioni della narrativa storica dovevano modificarsi. Altri generi iniziarono a salire d’interesse: gialli politici, film polizieschi, film sulla mafia, drammi sociali e film dell’orrore.
La commedia all’italiana si è sempre nutrita della realtà, diventando una sorta di specchio (a volte fortemente distorto) per il pubblico (specialmente quello italiano). Tuttavia, il contesto storico degli anni di piombo (date simboliche: 1969-1978) e la sua diretta influenza sul film di Monicelli annuncianola fine definitiva di una certa epoca di ingenuità, frivolezza e divertimento. Sebbene Ettore Scola avesse già introdotto nell’ambito della commedia una grande dose di sporcizia, violenza (intesa in senso lato), disillusione e grottesco (basti pensare a un’opera di punta come “Brutti, sporchi e cattivi”, 1976), è proprio Monicelli ad essere considerato quello che le ha spezzato definitivamente il già fragile cuore.
In cosa consiste il cambiamento fondamentale e l’originalità dell’opera? Il protagonista interpretato da Sordi nella prima parte del film appare come la continuazione di molti personaggi che lui stesso si divertiva a interpretare negli anni ’60 e per i quali il pubblico lo amava (e lo ama fino ad oggi) immensamente.
Personaggi fortemente invischiati in una rete di ipocrisia e dipendenza sociale, che vogliono arrangiarsi in ogni modo, soprattutto con l’aiuto di favori e raccomandazioni. Senza regole né scrupoli. Ma il film di Monicelli va oltre la satira. In questo “piccolo mondo borghese” – simboleggiato dalla casa della famiglia Vivaldi, una specie di oscura cripta in cui i personaggi si sono sepolti mentre ancora vivono – si insinua brutalmente la “realtà di piombo”. Proprio mentre Mario è vicino ad ottenere il successo sognato dal padre, il figlio rimane ucciso colpito da una pallottola vagante esplosa nel corso di una sparatoria successiva a una rapina a una banca. Giovanni seppur disperato ricorda il volto del giovane rapinatore.
La tensione in molte commedie all’italiana (tra cui la più famosa, ovvero “Divorzio all’italiana”, 1961) proveniva dal conflitto tra „L’Italia del capitale umano/sociale” e quella imposta, “L’Italia politica”. Una sopra, l’altra giù, succube. Sebbene lo Stato italiano questa volta sia davvero in grado di aiutare Giovanni a render giustizia, l’uomo decide – letteralmente e figurativamente – di prendere in mano la situazione. Occhio per occhio, dente per dente…
“Un borghese piccolo piccolo” dipinge il ritratto di una società sull’orlo di un crollo completo dei valori, dove il crimine genera un altro crimine e il trauma genera un altro trauma. Le profonde frustrazioni (raccolte nel decennio del boom e del conformismo rampante) alla fine esplodono nel modo più atavico possibile. La vittima diventa il carnefice e viceversa. Ma la prima parte del film non è crudele e cinica come la seconda, nonostante non sgoccioli sangue? O forse la prima vittima di Giovanni è proprio il suo bonario figlio Mario, che il padre voleva per forza modellare a sua immagine e somiglianza? Il cambio di ruoli e convenzioni non è mai stato così spietato nel cinema italiano e il capolavoro di Monicelli rimane un autentico e ancora attuale capolavoro.
¹ Vincenzo Cerami (1940-2013), noto scrittore e sceneggiatore italiano, molto apprezzato dalla critica. Fu Pier Paolo Pasolini, che per primo scoprì il talento del futuro co-sceneggiatore del premio Oscar „La vita è bella” (1997), a trasmettergli l’amore per la cultura, la lingua e la poesia. A metà degli anni Sessanta, il regista di „Teorema” propose al suo ex allievo il ruolo di aiuto regista sul set di “Uccellacci e uccellini” (1966), pellicola oggi ritenuta cult, in cui i ruoli principali vengono interpretati da Totò (genio assoluto della commedia italiana) e Ninetto Davoli. Cerami ha avuto un forte sodalizio con il cinema e molti suoi autori, basti citare le collaborazioni con Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Antonio Albanese e il già menzionato Roberto Benigni.
² Nel libro, dopo l’uccisione dell’ assassino di Mario, Giovanni torna – come se niente fosse accaduto – nel suo „piccolo mondo chiuso” dove ogni giorno inizia con una tazza di caffè. Sergio Amidei e Mario Monicelli in collaborazione con Cerami hanno rimodellato in modo significativo il finale del film. Nel finale, compare un forte suggerimento che il protagonista interpretato da Sordi abbia appena iniziato la sua „sanguinosa crociata”. Dopo la morte della moglie e il pensionamento, l’uomo solitario decide di intraprendere un „nuovo tipo di attività” che consiste nel continuare ad amministrare „la propria giustizia” nel mondo che lo circonda.
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FINCHÈ C’È CINEMA, C’È SPERANZA è una serie di saggi dedicati alla cinematografia italiana – le sue tendenze, opere e autori principali, ma anche meno conosciuti – scritta da Diana Dąbrowska, esperta di cinema, organizzatrice di numerosi eventi e festival, animatrice socioculturale, per molti anni docente di Italianistica all’Università di Łódź. Vincitrice del Premio Letterario Leopold Staff (2018) per la promozione della cultura italiana con particolare attenzione al cinema. Nel 2019, è stata nominata per il premio del Polish Film Institute (Istituto Polacco d’Arte Cinematografica) nella categoria “critica cinematografica”, vincitrice del terzo posto nel prestigioso concorso per il premio Krzysztof Mętrak per giovani critici cinematografici.