Certe mattine capita di alzarsi controvoglia. Guardo fuori dalla finestra: giornata uggiosa. È giugno ma a Varsavia c’è un’atmosfera da novembre italiano. Una giacca a vento da velista, occhiali da sole che riparano dalla vita più che dalla luce e un cappello da milizia sudamericana aiutano a lanciarsi nel traffico umano della capitale intento a spostarsi da casa all’ufficio. Devo dire che mi diverte a volte arrivare nella laboriosa Babka Tower con look da reporter di guerra, dividere l’ascensore con azzimati professionisti convinti che la scarpa a punta nera e le camicie bicolore, in genere un mix tra bianco infermiere e rosa culetto di bambino, siano lo status symbol del manager in carriera, magari con l’aggiunta comportamentale del tichettare nervosamente con le dita sul portachiavi automatico della macchina fieramente parcheggiata in garage. Ancora più divertente l’incontro con le profumate segretarie convinte, nella loro breve esperienza di vita, di saper distinguere al primo sguardo le persone che contano da quelle che non faranno mai carriera. Osservano gelidamente il mondo, compreso me nell’ascensore, dall’alto dei loro tacchi 12 costruendo una loro immaginaria piramide sociale attraverso giudizi estetici fondati sulla, per loro, solida base degli articoli di costume delle riviste glamour, pre-giudizi confermati dalla quotidiana visione dei loro boss.
Scivolo dentro l’ufficio alla chetichella, nell’aria riecheggia il furioso digitare sulle tastiere delle nostre intrepide giornaliste-traduttrici. Che notizie oggi? “C’è Napolitano a Varsavia”, annuncia il mio sabaudo socio. “Abbiamo chiesto di incontrarlo?” ribatto. “È una visita ufficiale nel programma non sono previsti incontri con i giornalisti”, la risposta. “Vabbè ma se andassimo ad aspettarlo sotto l’ambasciata per beccarlo nel breve transito verso la macchina?” rilancio. “Mah… la vedo dura. Però oggi parteciperà alla cerimonia di commemorazione del garibaldino Francesco Nullo morto per la libertà della Polonia, se vuoi possiamo andare a far due foto”, cerca di confortarmi il mio partner in job. “Certo! E gli diamo Gazzetta Italia!” rispondo ritrovando un motivo per dar senso a questa mattina di giugno-novembre. Il mio socio mi guarda negli occhi con una gentile perplessità piemontese. Si sa in quelle terre pedemontane lontane dal mare la gente ama pianificare, ordinare le proprie giornate, raggiungere obiettivi come conclusione di percorsi immaginati fin dai banchi di scuola. In Piemonte c’è la pazienza per far crescere il vigneto e cercare i tartufi. A Venezia invece siamo stati tirati su scambiando sulle tolde delle navi al miglior prezzo caffè e sale, pepe e seta, inventando ed esportando ahinoi nel mondo le banche, il cui nome (insieme a molti altri vocaboli che la Serenissima ha generosamente dato al mondo) viene da banco, il banco-giro dove a Rialto ebrei e cristiani, con limiti severissimi, concedevano prestiti. Così chi è nato in una città che fonda la propria solidità nella precarietà della palude lagunare e ha costruito la propria storia in un millennio di commerci in mercati lontani o negli umidi fonteghi del Canal Grande, è pronto a saltare ogni formalità per gettarsi sul carico di merce. Incontrare il presidente del proprio paese è merce rara. E allora via verso il parco Frascati, sì a Varsavia c’è un parco Frascati, alla caccia del monumento a Francesco Nullo. Arriviamo quando già il picchetto d’onore polacco è schierato. Sono rigidi e impettiti, fanno la loro bella figura anche se la posizione non è confortevole. Tutto attorno con tenuta da body guard e sguardo minaccioso si aggirano membri della sicurezza italiana e polacca. Io con look da inviato sulle tracce del subcomandante Marcos e il mio socio con impeccabile impermeabile da banchiere londinese veniamo garbatamente invitati a sottoporci a scansione. Un agente da un voluminoso borsone tira fuori uno scanner personale che ci viene passato su tutto il corpo. “Ora chiediamo alla sicurezza quando possiamo dare Gazzetta Italia a Napolitano, no?” rifletto a voce alta. “Seba è impossibile, non è previsto, non ci faranno mai avvicinare al presidente”, la diligente risposta del mio elegante socio che si defila andando a posizionarsi con la macchina fotografica dietro al monumento al fianco di due cameraman. Ma come, sta per arrivare Napolitano e noi ci accontentiamo di fargli una foto ricordo da lontano? Disturbo la sicurezza brandendo la tessera di giornalista. Spiego la semplicità del mio progetto: consegnare una copia di Gazzetta Italia nelle mani del Presidente, tempo tecnico 30 secondi. L’aver fatto il militare nei Carabinieri mi aiuta ad usare i vocaboli e l’atteggiamento giusti, ricevo una risposta non negativa: “chiamo la sicurezza che è con il presidente per capire se è possibile fare questa operazione, è una cosa fuori programma”. Il mio interlocutore si allontana, telefona e ritorna: “vediamo come va la cerimonia, se non fosse possibile può dare a me una copia del giornale che recapiterò al presidente”. “Certo, mi sembra la cosa migliore” rispondo pacatamente mentre entrambi già sappiamo che non andrà così. Passano decine di minuti, i volti dei soldati del picchetto sono lividi, tenere la posizione è impresa epica, muovono le dita delle mani per far circolare il sangue. Ma ecco finalmente l’avvicinarsi di macchine lampeggianti. Una, due, tre, quattro passano davanti al monumento, la quinta si ferma esattamente davanti, scende il Presidente della Repubblica Italiana. Scatta il picchetto, fibrillano le body guard. Napolitano incede verso il monumento. “L’austera cerimonia è breve ma sentita” immagino il commento con voce pacata del Cinegiornale Luce degli anni Sessanta. Corona di fiori deposta. Napolitano si volta ed inizia a tornare verso la macchina. Alessandro Vanzi, il mio corposo socio, alza le mani al cielo non in segno di vittoria ma per fotografare il presidente da sopra le teste dei cameraman che gli si sono messi davanti. Il mio interlocutore della sicurezza si avvicina rapido e dice la fatidica parola: “adesso!”. Non attendevo altro, mi scaravento sgomitando verso il presidente tra gli occhi stupiti della sicurezza polacca e quelli sornioni di quella italiana che hanno già previsto tutto. Sono davanti al mio presidente. Intorno si forma un capannello misto di Forze dell’Ordine in divisa, sicurezza in borghese, operatori TV, fotografi, soci eleganti. Tutti fermi a guardare l’improvvisa scena. Mi presento nel modo più rapido e chiaro possibile per far capire che non sono un intrufolato, tipo quello che mostra i preservativi alle spalle dei giornalisti TV davanti Palazzo Chigi. Consegno Gazzetta Italia. Gli occhi curiosi di Napolitano si accendono: “Bravi un giornale per gli italiani in Polonia, e quanti siete? Cosa fate principalmente?” Rispondo con frasi brevi e chiare mentre il presidente sfoglia interessato il nostro giornale. Cerco di comunicare in pochi minuti l’esistenza di un mondo di italiani in Polonia che hanno bisogno di avere un paese Italia forte alle spalle. Persone che si sono rimboccate le maniche e che con coraggio creano attività, spesso di successo, in un paese emergente. Ma accenno anche alla grande attenzione dei polacchi verso le infinite influenze italiane nell’arte, nella cultura e naturalmente nella moda e nella cucina. “Ma vivi qui?” domanda Mister President. “Esattamente a metà tra Varsavia e Venezia”, rispondo. “Che bel ponte culturale! Molto bene. Andate avanti così la vostra opera è importante per l’Italia” si congeda felicemente sorpreso Napolitano. Sale in macchina, il capannello si scioglie. Missione compiuta! Si torna in ufficio vincitori. Sono di nuovo nell’ascensore di Babka Tower. Guardo le porte che iniziano la loro noiosa corsa verso la chiusura, in quel momento fa in tempo ad entrare una manager. Una bella trentenne mora con occhiali squadrati che sprizza cosmopolitismo da tutti i pori. Saluta, si guarda allo specchio, sistema i capelli, si rigira verso di me e cerca di leggere dalla Gazzetta Italia che ho ripiegata in mano. “Tenga pure, è in italiano e polacco, lo facciamo qui al 15° piano” abbozzo sorridente allungandole il giornale. “Ah che interessante! Grazie!”, risponde incuriosita prima di scendere al 14° piano congedandosi con un allegro saluto. Non c’è dubbio era una manager non una segretaria.