Tra l’Italia e Los Angeles – intervista ad Alessandro Marvelli

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Alessandro Marvelli si è trasferito a Los Angeles dopo aver studiato cinema digitale all’Università La Sapienza di Roma. È membro dell’Art Director Guild Of America e tra le sue passioni c’è la pittura. Ha vinto molti premi prestigiosi e ha lavorato con star come Brad Pitt, Al Pacino, Danny DeVito, Bradley Cooper. Negli ultimi 15 anni si è occupato soprattutto di spot pubblicitari, video musicali e lungometraggi. Ho conosciuto Alessandro a Los Angeles e sono rimasta affascinata dalla sua arte, che ho iniziato a collezionare. Il 21 novembre di quest’anno, in un’asta tenutasi a Cracovia, il suo quadro intitolato “Corona” è stato venduto per un prezzo molto alto.

Da dove nasce la tua arte?

Non lo so e non voglio saperlo. L’arte è un bisogno naturale, come respirare. Non l’ho scelta, è sempre stata con me. Non mi interessa scavare per trovare risposte: preferisco accettare che tutto sia così com’è. Il mistero è parte della sua bellezza.

Ti senti più artista, scenografo o comunicatore?

Non mi considero un artista. Quella parola appartiene ai grandi della storia, a chi studiamo e ammiriamo da lontano. Io sono un comunicatore. Ricevo messaggi, non so bene da dove: forse dal mio inconscio, forse da qualcosa di più grande. Li trasformo in immagini che parlano. La scenografia, invece, è il mio lavoro quotidiano, molto pratico e razionale. È problem solving puro, un continuo bilanciamento di idee, budget e responsabilità. Nei miei quadri, però, lascio spazio alla libertà: è lì che posso davvero esprimere ciò che ho dentro, senza filtri e senza dover rendere conto a nessuno.

I tuoi quadri sono messaggi permanenti. Qual è il loro cuore?

I miei quadri sono per tutti: un bambino, un adulto, chiunque può trovarci qualcosa di diverso. Non controllo ciò che trasmettono. Quello che desidero è che siano un invito alla speranza, un ponte per connettersi con sé stessi. Uso molto i colori per attirare l’attenzione: se una persona li nota anche solo per un attimo e poi li lascia andare, è già abbastanza.

Hai definito il tuo lavoro come una “matrice.” Cosa rappresenta questa parola?

La matrice è l’origine di tutto, il punto da cui tutto parte. È ciò che connette ogni cosa: visibile e invisibile, umano e divino. Nei miei quadri cerco di rendere visibile questa connessione, di creare un ponte tra quello che sento dentro e ciò che gli altri possono percepire. Questo concetto mi accompagna da sempre, fin da bambino, anche quando non avevo le parole per  descriverlo.

Come concili il tuo lavoro di production designer con la pittura?

Non mescolo mai le due cose. La scenografia è razionale e concreta. È fatta di dettagli, calcoli e soluzioni rapide. Ogni progetto è diverso: una squadra nuova, una città diversa, un regista da soddisfare. È un mestiere che richiede energia mentale e fisica, ma mi appassiona. La pittura, invece, è il mio spazio intimo. È la mia terapia, un momento per riconnettermi con me stesso. Ho bisogno di entrambi: non potrei vivere solo con l’una o con l’altra. Anni fa, ho avuto l’occasione di abbandonare il filmmaking per dedicarmi esclusivamente alla pittura. Era un’opportunità enorme, ma non ce l’ho fatta. Ho capito che ho bisogno di questa dualità per essere equilibrato: la concretezza del filmmaking e la libertà della pittura si completano a vicenda.

Un messaggio per chi guarda i tuoi quadri?

Non cerco che i miei quadri siano capiti o interpretati in un certo modo. Non devono essere fermati, osservati o decifrati. Sono lì per esistere, per vivere una loro vita. Io li realizzo e poi li lascio andare. Che poi trovino significato in una casa, in un ufficio, o semplicemente nel cuore di chi li guarda, non è più una mia scelta. E questo mi dà una libertà incredibile.