Poesia palestra di conoscenza

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Alessandro Baldacci è docente di italianistica all’Università di Varsavia e autore di testi critici su poesia e letteratura contemporanea. Si occupa soprattutto della tragedia nella letteratura europea e italiana, della poesia italiana ed europea della seconda metà del Novecento, dei temi della guerra nella letteratura e della ricezione della letteratura tedesca in quella italiana contemporanea. Baldacci, se da un lato è immerso nella dimensione del ricercatore che indaga la lettura e l’interpretazione della poesia, dall’altro è un docente intento a diffondere la sua passione letteraria tra gli studenti.

Come nasce la passione per la poesia?

Inizialmente è stata pura fame di cultura, di conoscenza, di approfondimento. Mi stavo laureando in sociologia e mentre studiavo capivo che la mia vera passione era la letteratura. Mi “regalavo” un libro di letteratura ogni volta che superavo un esame. Più leggevo libri di poesia e romanzi più capivo che quello era l’ambito a cui avrei voluto dedicarmi a tempo pieno. Scrivendo la tesi di laurea ho cercato di mettere in dialogo sociologia e letteratura. Il bisogno di approfondire la mia passione mi ha portato prima a laurearmi in Lettere, proseguendo poi con un dottorato in Letterature Comparate. Negli stessi anni ho cominciato a collaborare con la casa editrice Donzelli. Ero co-direttore di una collana di poesia. Quel periodo è stato fondamentale per me: sono entrato in rapporto diretto con diversi poeti contemporanei che apprezzo molto, come Antonella Anedda, Milo De Angelis, Franco Buffoni. Sono stati questi incontri a formarmi, a segnare in profondità il lettore di poesia che ancora oggi sono, convinto che debba continuare a dare credito alla poesia e ai poeti.

Com’è che il tuo percorso accademico ti ha portato in Polonia?

Dopo il dottorato ho cominciato a lavorare prima presso l’Università di Cassino, poi per un breve periodo all’Università di Roma. Nel 2006 ho ricevuto la proposta di insegnare letteratura italiana all’Università di Potsdam e dato che conoscevo la lingua, avendo vissuto da piccolo in Germania, mi è sembrata l’opzione migliore. Nel 2009 si è aperta la possibilità di lavorare a Stettino, da dove, dopo qualche anno, mi sono spostato a Varsavia. Insegnare all’estero è un’esperienza estremamente stimolante. Bisogna approcciarsi con gli studenti ed entrare in classe coscienti di dover fare da ponte fra diverse culture e tradizioni. Questo richiede sia al docente che allo studente la necessità di aprirsi allo spazio dell’ospitalità e dell’ascolto reciproco. Una esperienza che arricchisce in primo luogo chi è chiamato a insegnare. È questo uno degli aspetti più appassionanti di questo lavoro. In definitiva il mio percorso rappresenta il tentativo di realizzare questa voglia di conoscenza e di dialogo, e di seguire, con fiducia, la mia passione per la letteratura che mi ha portato a Varsavia, la città in cui vivo e lavoro.

Quali differenze ci sono nell’insegnamento universitario tra Italia, Germania e Polonia?

Nell’università tedesca lo spazio per italianistica si è fatto negli anni sempre più esiguo: adesso è stata praticamente assorbita dalla romanistica. In Polonia mi sono reso conto invece che lo studio della lingua e della cultura italiana continua a crescere. A Varsavia, dove insegno da diversi anni, mi piace molto il progetto che segue la facoltà. Di solito lo spazio dato alla letteratura nelle facoltà di italianistica non è molto ampio perché, prima di tutto, bisogna formare gli studenti a livello culturale e quindi l’obiettivo è quello di lavorare su alcune nozioni importanti della letteratura per poi dare il massimo impegno sul miglioramento della loro conoscenza dell’italiano. Quello che invece ho trovato qui a Varsavia, e che mi piace molto, è la forte attenzione alla letteratura e al contemporaneo, senza tralasciare il patrimonio della nostra tradizione. E questo mi fa sentire ancora più a casa. Inoltre mi accorgo di una sempre maggiore competenza linguistica degli studenti e questa è una bella sorpresa per una persona formata in Italia e che conosce come, generalmente, l’insegnamento delle lingue straniere si attesti a un livello piuttosto standardizzato. Già in Germania mi sono accorto di quanto gli studenti siano capaci di raggiungere in fretta un buon livello di conoscenza della lingua ma in Polonia la situazione è addirittura migliore: qui gli studenti del secondo anno riescono a seguire un corso tenuto interamente in italiano. Tutto ciò è ovviamente di enorme aiuto per le lezioni di letteratura che presento a partire dal terzo anno. La poesia, soprattutto se studiata in lingua straniera, non è un tema facile.

Come costruisci i tuoi corsi per trasmettere la tua passione agli studenti?

Come detto, partendo dall’alta competenza linguistica degli studenti, posso organizzare lezioni sulle questioni a mio parere più attuali all’interno del dibattito letterario contemporaneo. L’unico ostacolo potrebbe essere rappresentato dalle difficoltà che può presentare il linguaggio poetico per degli studenti non madrelingua. Per questo in Germania preferivo concentrare le mie lezioni sulla forma del racconto, tipica della tradizione letteraria italiana e allo stesso tempo carica di minori ostacoli comunicativi rispetto a quelli della specifi cità del codice poetico. Mi sembrava che ciò garantisse a tutta la classe la possibilità di entrare meglio in relazione con il testo. A Varsavia ho cominciato sempre di più a sperimentare con gli studenti l’approccio alla poesia. All’inizio è stato un po’ rischioso perché la poesia spaventa sempre. Il linguaggio poetico è considerato spesso troppo chiuso o troppo elitario, astratto e sganciato dalla realtà. Al contrario sono convinto che la poesia sia uno degli strumenti migliori per apprendere l’italiano perché la ricchezza, il ritmo, la dinamica di una lingua è impresso nelle sue tradizioni letterarie. Tutti questi aspetti nel linguaggio poetico li troviamo intrecciati in modo ancora più stretto. In defi nitiva, quando si supera l’iniziale timore reverenziale verso la poesia e ci si confronta con il meraviglioso patrimonio lessicale e ritmico che porta con sé, i frutti sono evidenti. La poesia ha una profondità di ricerca sulla parola che è diffi cile ritrovare in altre forme espressive.

A chi vuole avvicinarsi alla poesia che percorso gli suggeriresti?

Credo che si debba partire dalla fiducia nella parola poetica. Io ho sempre diffi dato sia dell’approccio ingenuo alla poesia così come di quello eccessivamente intellettualistico, puramente tecnicistico. Il mio non è un discorso banalmente anti-metodologico. Intendersi di metrica, di fi gure retoriche e stilistiche arricchisce, potenzia il nostro sguardo sui testi. Ma ancor più importante è riconoscere il testo come un corpo vivo, come una presenza con cui entrare in relazione attiva, alla ricerca di verità che ci riguardano. La poesia ha una capacità particolare di colpirci in modo preciso e diretto, di creare un legame con il nostro vissuto, di interrogarci così come di metterci in relazione tanto con il mondo che ci sta intorno quanto con l’universo che portiamo dentro. Io mi sono appassionato alla poesia da giovane, leggendo Baudelaire – in una pessima traduzione e guardicchiando come suonava in francese – così come immergendomi per la prima volta nell’opera di Montale senza riuscire a comprendere alcuni aspetti dei suoi testi, ma sentendo in modo distinto, in quegli intrecci fra suono e senso una domanda a cui non riuscivo a restare indifferente. C’era una tensione al conoscere che si accendeva, anche quando parzialmente frustrata, e che portava a rileggere più volte lo stesso testo, o a cercare in altri libri di poesia analoghe esperienze. A lezione cerco di far passare l’idea di questa particolare esperienza del senso che avviene in un testo poetico, l’idea che non possiamo limitarci alla libera interpretazione di un’opera ma allo stesso tempo dobbiamo evitare che si crei una distanza dal testo, tale da renderlo muto. Parlare di poesia a lezione è per me un tentativo di rompere il tabù che sempre più richiude la scrittura in versi in uno spazio di marginalità, staccata dal quotidiano che vivono e sperimentano gli studenti. Il testo poetico non deve essere percepito come lontano, intellettualistico, da avvicinare solo se armati sino ai denti di teoria. Ripeto: l’ingenuità non aiuta la comprensione della poesia, ma credo allo stesso tempo nella capacità della parola poetica di parlare da sé, di mostrare sempre, in modo sorprendente, la sua attualità e le sue verità. Una cosa che dico spesso agli studenti è di non porsi verso i testi con delle domande qualsiasi. Li invito a porre domande significative, domande forti, perché il testo poi reagisce e si attiva una relazione che rende la lettura critica così appassionante.

Secondo te c’è distanza tra quello che si insegna a italianistica e la vita reale del paese?

Non credo. E allo stesso tempo non mi convince il concetto di utilità applicato ad un percorso di studi. L’utilità è un criterio ambiguo. Per utilità si intende spesso utilità immediata, che può essere una trappola. Credo maggiormente nei percorsi più indiretti, più lunghi, non immediatamente produttivi, e che invece alla fine risultano estremamente efficaci e formativi. Spesso sento domandare a cosa serva oggi una formazione universitaria umanistica. Ora, se andiamo a vedere a livello europeo cosa chiedono molte aziende, scopriamo che sono ricercate prevalentemente persone con una preparazione umanistica perché si tratta di una formazione flessibile che ci rende capaci di entrare in relazione con tutti gli aspetti del lavoro, oltreché della vita. La cultura umanistica offre dunque una formazione a tutto tondo che si integra con gli altri saperi e che ci mette nelle condizioni di farli interagire in modo virtuoso. Tutto sta nell’apertura mentale della persona. Non bisogna immaginare la letteratura come uno spazio in cui rinchiudersi ma nemmeno pensare che la sua utilità possa essere quantizzata. Io ho sempre avuto sfiducia verso le richieste di utilità. Mi ricordo che ad uno dei tanti convegni a cui ho partecipato mi chiesero: “Ma a cosa serve la poesia?”, io fortemente irritato risposi orgogliosamente: “In realtà non serve a niente, ma nel suo non servire a niente serve a tutto”. A volte esiste una utilità che puoi spendere solo in un settore e che ti rende povero altrove. La letteratura è quel qualcosa che ti rende positivamente problematico e ti apre alle potenzialità del conoscere, il conoscere vero, profondo, formante e determinante.

E quindi qual è lo scopo ultimo dell’insegnamento?

Lo sforzo di un insegnante non deve essere quello di fornire un pacchetto completo e poi di dire: “ecco, con questo puoi vivere”. Non saprei farlo. Un insegnante dovrebbe piuttosto trasmettere la passione del ragionare e permettere allo studente di sperimentare in modo libero le sue potenzialità. La formazione deve essere una pratica molto aperta perché è una particolare forma di dialogo. Non è un pacchetto che si passa dal docente allo studente, ma un complesso di stimoli, prospettive, di sentieri appena accennati che poi lo studente è chiamato a sviluppare autonomamente. Io ad esempio ho sempre percepito la letteratura come la grande possibilità di conoscere sé stessi tramite la parola altrui, e mi auguro che le nostre studentesse e i nostri studenti sapranno far fruttare le nozioni che gli offriamo, al di là dell’utilità immediata, per andare oltre. Questo è il bello nell’insegnare, non dominare o invadere eccessivamente lo studente ma indicargli un orizzonte di crescita e di sviluppo, che è solo suo.