L’articolo è stato pubblicato sul numero 79 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2020)
La pizza ha origine antichissime, l’usanza di collocare gli alimenti sopra un disco di pasta da usare come piatto era diffusa ovunque e in tutte le epoche. Quando poi non c’era abbastanza cibo, si mangiava pure il piatto, come descrive Virgilio nell’Eneide: «Enea, i capi supremi e Iulo si distendono/ sotto i rami d’un albero altissimo: preparano/ i cibi, mettendo sull’erba larghe focacce di farro/ come fossero tavole (consigliati da Giove),/ e riempiono di frutta i deschi cereali./ Allora, consumati quei poveri cibi,/ la fame li spinse a addentare le sottili focacce/ spezzandone l’orlo. “Ahimè – fece Iulo/ scherzando – noi mangiamo anche le nostre mense”.»
La prima volta che compare la parola pizza è nel 997, in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano, a sud di Roma, al confine tra Lazio e Campania. Il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che, oltre all’affitto, ogni anno erano dovute ai proprietari nel giorno di Natale «duodecim pizze», assieme ad altri beni alimentari. E dodici pizze erano la regalia prevista pure per Pasqua. Non sappiamo cosa quelle pizze fossero, probabilmente focacce. Ci è più chiaro, invece, in cosa consistesse la pizza napoletana descritta dal Bartolomeo Scappi, cuoco personale di papa Pio V, nella sua “Opera”, pubblicata nel 1570. Questa è la seconda citazione conosciuta della pizza, e si tratta più che altro di un dolce. Bisognava pestare in un mortaio mandorle, pinoli, datteri e fichi freschi, uva passa, unendo acqua di rose in modo da ottenere una pasta che potesse essere mescolata con rossi d’uovo, zucchero, cannella e mosto d’uva. Il tutto andava poi tirato in una sfoglia da infornare alta circa tre centimetri. Scappi tuttavia è il primo a legare la pizza a Napoli e questa preparazione, per quanto complicata, è pur sempre una base su cui mettere sopra qualcos’altro. «In essa pizza si può mettere d’ogni sorte condite», precisa il cuoco papale.
Una preparazione in qualche modo simile sopravvive in Veneto e Friuli, dove la pinza (guardacaso l’etimologia della parola è la stessa, e deriva dal greco “pita”) è un dolce di farina e frutta secca, piuttosto basso e cucinato in una teglia da forno. Buono da mangiare, ma brutto da vedere, è il dolce tipico dell’Epifania.
A Napoli, invece, dovrà passare qualche secolo, ma la base si trasformerà da un pastone di frutta fresca e secca con uova e burro, a una semplice pasta di farina e lievito. Con l’aggiunta del pomodoro arrivato dall’America, il gioco è fatto: ecco la nostra pizza. E quando Raffaele Esposito battezza quella con mozzarella, pomodoro, basilico e parmigiano, il cerchio si chiude.
La margherita si chiama così in onore della regina Margherita di Savoia, moglie di re Umberto I. Ma esisteva già e non è stata inventata per la delizia dell’augusto palato, come in genere si racconta. Il colpo di genio di Raffaele Esposito, ovvero il pizzaiolo accreditato dell’invenzione, non sarebbe stato quello di aver creato dal nulla una pizza nuova, ma di aver risposto «margherita» – ovvero lo stesso nome della regina – alla domanda su come si chiamasse quella i cui tre colori (verde del basilico, bianco della mozzarella, rosso del pomodoro) richiamavano la bandiera italiana.
La leggenda narra che il suddetto Raffaele Esposito, cuoco della pizzeria Pietro… e Basta Così (fondata nel 1780, ancor oggi esistente con il nome di pizzeria Brandi) nel giugno del 1889 fosse stato chiamato da un funzionario della real casa nella reggia di Capodimonte, dove i sovrani si trovavano in visita.
Il buon Esposito prepara tre pizze diverse e la regina dichiara di apprezzarne in particolare modo una, cioè quella che sarebbe diventata la margherita. A incoronare Raffaele Esposito re dei pizzaioli ci sarà poi una lettera, datata 11 giugno 1889, firmata da certo Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della real casa: «Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime». La lettera è esposta alle pareti della pizzeria Brandi, di Salita Sant’Anna di Palazzo. Neppure questa istituzione storica è stata risparmiata dalla crisi e qualche tempo fa ha annunciato di chiudere a mezzogiorno e di mettere in cassa integrazione una parte dei dipendenti.
Da quel 1889, tutte le volte che la regina Margherita tornava a Napoli avrebbe sempre invitato a palazzo Esposito che pigliava gli attrezzi del mestiere e si avviava assieme alla moglie con un biroccino verso la reggia dove preparava la pizza tanto apprezzata dalla sovrana.
Fin qua probabilmente è tutto vero: Raffaele Esposito sarà senza dubbio stato il miglior pizzaiolo di fine Ottocento e avrà senz’altro fatto innamorare la regina della pizza che da allora in poi avrebbe portato il suo nome. Ma è altrettanto certo che quel modo particolare di preparare la pizza non l’ha inventato lui.
10Nel libro di Francesco De Bourcard, “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”, pubblicato nel 1858, quando la città sarebbe stata ancora per due anni la capitale del regno delle Due Sicilie, è descritta una pizza con la mozzarella e il basilico: «Altre [pizze] sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella». Il pomodoro viene dato come opzionale: «talora si fa uso», scrive l’autore napoletano di origine svizzera. Il bravo Raffaele Esposito, quindi, si sarebbe limitato a preparare per la regina tre pizze già diffuse in città e il suo merito sarebbe quello di averne battezzata una con il nome dell’augusta sovrana.
Dai ricettari di quell’epoca si apprendono altre cose interessanti sulla pizza. Per esempio che il pomodoro veniva messo sopra gli ingredienti, a coprirli e avvolgerli, e non steso sulla pasta con il resto della guarnitura collocato successivamente, come avviene oggi. Il medesimo De Broucard descrive anche la pizza piegata in due: «Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone.» Una preparazione, quindi, tradizionale almeno quanto quella della pizza aperta. Altra cosa: «il calzone si serve cosparso di una abbondante salsa bollente, fatta di pomodoro fresco a pezzi, olio, aglio, sale, pepe e origano», scrive la prima edizione della Guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club Italiano, nel 1931. E questo per evitare che il raviolone di pasta si sgonfi miseramente non appena a contatto con la salsa di pomodoro fredda, come troppo spesso accade oggi.
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Pillole culinarie è una rubrica di approfondimento sulla storia della cucina curata dal giornalista e scrittore Alessandro Marzo Magno. Dopo essere stato per quasi un decennio il responsabile degli esteri di un settimanale nazionale, si è dedicato alla scrittura di libri di divulgazione storica, pubblicati da importanti case editrici e in alcuni casi tradotti in varie lingue. Ne ha pubblicati diciassette, uno di questi “Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” ripercorre la storia delle più importanti specialità gastronomiche italiane. Partecipa a trasmissioni televisive sulla principale rete della tv pubblica italiana.