Fa certamente parte della natura stessa di ogni idioma l’esistenza di differenze tra scritto e parlato, ed è normale che il livello elevato, letterario e colto, si contrapponga spesso all’uso corrente. Ma in Italia la cosiddetta “questione della lingua” ha assunto caratteristiche veramente specifiche, in presenza dell’accentuato e prolungato particolarismo amministrativo e del caleidoscopio di volgari neolatini, esiti di radicate identità locali.
A chi chiedesse: “Ma cosa significa lingua italiana?”, credo che risulterebbe molto difficile far capire in poche parole come la risposta alla sua richiesta non possa essere né univoca né rapidissima. Infatti, se consideriamo che uno dei presupposti più semplicistici per definire una lingua è di solito quello di assimilarla all’espressione scritta e parlata di un popolo e di uno stato politico, per l’Italia ci troveremmo di fronte ad immediate difficoltà di allineamento, visto che nessuno mette in dubbio che Dante, nato nel 1265, sia senz’altro il più importante scrittore italiano, ma data anche l’evidenza che il primo Stato unitario italiano risale solo a dopo il 1861, quando Manzoni già da anni aveva scritto (e scritto in quel modo proprio perché ancora non c’era un’Italia unita) I Promessi Sposi.
A partire dal Trecento, nelle varie corti della penisola italiana s’era progressivamente formata una sorta di comunità itinerante di dotti e di letterati, che il problema aveva cercato di eluderlo, utilizzando una lingua cortigiana molto poco stabile, che si dimostrerà però assolutamente inadeguata quando alla fine del Quattrocento si porrà anche una questione pratica e professionale, divenuta particolarmente pressante: la sempre più fiorente industria della stampa esigeva infatti uniformità e una precettistica grammaticale chiara e univoca.
E sarà proprio nella stamperia di Aldo Manuzio, il più grande libraio del tempo, che Pietro Bembo, curando agli inizi del Cinquecento innovative edizioni dei testi di Dante e di Petrarca, cominciò ad elaborare la sua proposta per l’unificazione linguistico-letteraria italiana, ritenendo che potesse avvenire solo sulla base della tradizione letteraria illustre, applicando lo stesso metodo utilizzato per il latino classico, che si era esemplato sui modelli per eccellenza di Cicerone, per la prosa, e di Virgilio, per la poesia.
Così nel 1525, con le Prose della volgar lingua, un trattato divenuto fondamentale per la nostra storia letteraria e linguistica, il veneziano Bembo convinse tutti a usare il toscano letterario come lingua “italiana”, ovviamente solo scritta; indicando come modelli la lingua e lo stile del Canzoniere di Petrarca (che aveva imitato Virgilio), per la lirica, e la lingua e lo stile della cornice del Decameron di Boccaccio (che aveva imitato Cicerone), per la prosa.