Avevo sentito qualche racconto su Montecassino quando ero ancora una studentessa presso l’Accademia di Belle Arti a Cracovia, negli anni del comunismo tra il 1987- 1988. Ero una viziata adolescente italiana di diciotto anni, come la maggior parte della mia generazione non mi interessavo particolarmente di storia ma una volta in Polonia ho seguito con un certo interesse gli avvenimenti collegati a Solidarnosc. Tornata in Italia diedi vari esami di storia all’università italiana, ma nessun libro che ricordi descriveva il calvario di questa armata del secondo Corpo Polacco, che aveva liberato l’Italia aprendo la strada per Roma conquistando Montecassino, baluardo considerato inespugnabile dagli inglesi. Armata formata per la maggior parte da ex prigionieri denutriti e maltrattati nei lager russi, fatti trasferire grazie ad una serie di abili accordi tra il generale Sikorski, il generale Anders e Stalin in Persia per essere addestrati dagli inglesi dopo l’invasione della Russia da parte del loro precedente alleato, la Germania.
Più di un anno fa una signora polacca che lavora in biblioteca qui a Milano, Gabriella, mi parlò di suo padre ufficiale dell’armata di Anders, che aveva combattuto a Montecassino e che poi, rientrato in Polonia per ricongiungersi alla famiglia, era stato più volte perseguitato dal governo comunista di allora che considerava gli ex soldati dell’armata di Anders dei “nemici della patria”.
Era vietato allora parlare di Anders. Così anche in Italia, dove il partito comunista aveva una certa influenza, questa storia non veniva divulgata volentieri e persino ora non sono riuscita a trovare in alcuna biblioteca milanese il libro di Anders, “Un’armata in esilio”, pubblicato nel 1947, praticamente sparito (o fatto sparire?).
Iniziai a documentarmi e a raccogliere interviste tra gli ultimi reduci del secondo Corpo Polacco guidati da Anders e ciò che non smette ancora di sorprendermi è il loro amore incondizionato non solo per la Polonia, per la cui libertà combatterono senza ottenere nulla in cambio, ma il loro amore per l’Italia, che in fondo non aveva potuto fare molto per loro, nonostante che In Italia i polacchi persero 17.131 uomini, alcuni dei quali sepolti nei i 4 cimiteri di guerra a Casamassima (Bari, 450 caduti), Montecassino (1070 caduti), Loreto (1070), San Lazzaro di Savena (Bologna, 1450).
Solo in 3.000 di 115.000 ottennero la cittadinanza italiana, grazie a dei matrimoni stipulati prima del 1945, gli altri furono costretti a migrare, senza patria, senza casa, avevano perso tutto in quanto la maggior parte di loro proveniva dalla Polonia orientale occupata dai russi. Quelli sposati dopo il 1945 fecero persino perdere la cittadinanza italiana alle proprie mogli italiane che, per amore dei mariti diventati apolidi, li seguirono nei remoti angoli del pianeta, Argentina, Stati Uniti, Canada, Inghilterra etc.
Così, mentre io avevo potuto usufruire della scontata libertà essendo nata in Italia, senza neppure conoscerne le ragioni profonde, i miei coetanei polacchi all’Accademia si lamentavano del comunismo, delle file ai negozi, dell’impossibilità di viaggiare senza un invito ufficiale di uno straniero, della povertà delle proprie famiglie costrette a comprare quasi tutto al mercato nero (sapone, shampoo, carne, caffè, elettrodomestici etc). Eppure italiani e polacchi avevano combattutto insieme, per la stessa libertà. Per gli stessi ideali. E così la mia ricerca continuò appassionatamente, tra archivi sparsi per l’Europa e testimonianze dirette degli ultimi superstiti di questa grande epopea, la liberazione dell’Italia, di Montecassino, grazie al contributo dei polacchi. Nonostante le grandi difficoltà mi sono sentita in dovere di continuare questo film e di finirlo in tempo, per presentarne almeno uno spezzone all’anniversario di Montecassino, alla presenza delle istituzioni polacche e italiane, alla presenza di veterani polacchi provenienti da tutto il mondo, accompagnati dalle proprie famiglie, alla presenza di atleti internazionali che verranno a Montecassino per partecipare ad una maratona organizzata dal comune sui luoghi della battaglia.
Per i polacchi Montecassino rappresenta il proprio sacrificio incondizionato, l’ amore per la Polonia, come inciso nella lapide del cimitero: “noi soldati polacchi abbiamo donato l’anima a Dio, i nostri corpi all’Italia, i nostri cuori alla Polonia”.
Sia l’inno nazionale italiano che quello polacco parlano dell’amicizia tra i due popoli “fratelli”. L’inno polacco nacque nel 1797 a Reggio Emilia, nello stesso anno e luogo dove era nato il tricolore:
-“Marsz, marsz, D?browski, Z ziemi w?oskiej do Polski” (“marcia marcia D?browski, dalla terra Italiana alla Polonia”) -“Già l’aquila d’Austria/ le penne ha perdute/ il sangue d’Italia/e il sangue Polacco/bevé col Cosacco/ma il cor le bruciò”. Ennesima curiosa coincidenza che sancisce l’amicizia tra i due popoli.
Noi italiani abbiamo un debito con la Polonia, non dobbiamo dimenticarlo.
Nel film non si parla solo di guerra, ma anche d’amore, di fratellanza e di persistenza ai propri ideali anche quando tutto sembrava perduto; dopo le notizie non incoraggianti che circolavano in seguito agli accordi di Teheran, i Polacchi continuarono la loro battaglia per liberare l’Italia, per dare l’esempio. E poi come non parlare della mascotte di questo esercito, Wojtek, un orso che li seguì dall’Iran alla Palestina fino all’Italia, dove sotto le bombe aiutava i soldati a trasportare le munizioni?
Diventato la mascotte dell’armata, anche l’orso Wojtek, come i suoi commilitoni soldati, non ottenne la libertà meritata e venne chiuso in uno zoo ad Edimburgo dove si intristì; si animava soltanto quando sentiva parlare il polacco o qualche soldato oltrepassava la grata per giocare con lui, come ai vecchi tempi.
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