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Paltrinieri: compito della filosofia è tradurre

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Del mondo babelico, in grande trasformazione e dai futuri imprevedibili in cui viviamo abbiamo scelto di parlarne con Gian Luigi Paltrinieri che insegna Filosofia teoretica ed Ermeneutica filosofica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Paltrinieri si è a lungo occupato del pensiero di Immanuel Kant e insieme investiga il pensiero di Friedrich Nietzsche e di Martin Heidegger (link).

Cominciamo subito da una domanda difficile: visto che Lei è specialista di un ramo della filosofia, l’Ermeneutica filosofica, assai attento alla questione del linguaggio, quali sfide pone lo sviluppo dell’intelligenza artificiale alla filosofia del linguaggio e alla filosofia in generale?

“Intanto mi fa piacere avere l’occasione di far conoscere alle lettrici e ai lettori di Gazzetta Italia alcune caratteristiche della cultura filosofica italiana. Alla domanda rispondo che le sfide non riguardano semplicemente la filosofia del linguaggio, ma anche altri ambiti della filosofia. Soprattutto sottolineerei che non sono sfide solo per la filosofia. L’importanza pervasiva dell’intelligenza artificiale è per noi quotidiana e dal punto di vista di un filosofare che guardi con attenzione a come gli umani abitano il mondo sono molte le domande, poiché sono altrettante le conseguenze concrete in gioco. La prima riguarda il nostro rapporto con gli strumenti. Una delle cose che la filosofia ha compreso è che non si tratta semplicemente di rapportarsi all’intelligenza artificiale come a uno strumento. Essa è molto di più. Se noi concepiamo l’intelligenza artificiale solo come uno strumento, ci limitiamo a ripetere il solito schema: se ne temiamo gli effetti, diciamo che prima gli strumenti erano a nostra disposizione, ma ora non lo sono più, e anzi siamo noi che siamo diventati strumenti degli strumenti, mentre dovremmo recuperare il controllo di essi. Oppure – l’altro lato della stessa medaglia – se guardiamo solo con fiducia all’intelligenza artificiale, diciamo che prima gli strumenti a nostra disposizione erano pieni di limiti, laddove oggi il potenziamento delle loro capacità estende all’infinito i nostri poteri. Ebbene, questa impostazione va ripensata radicalmente. È infatti per noi esperienza quotidiana che dispositivi digitali e intelligenza artificiale non sono altro da noi o dal mondo in cui viviamo, e quindi essi stanno prima dell’alternativa “strumento a disposizione – strumento non a disposizione”. Ce ne accorgiamo, per esempio, quando gli strumenti si guastano e smettono di funzionare: si interrompe la tessitura del nostro mondo e non semplicemente la disponibilità di un mezzo. Peraltro, rispetto alla filosofia italiana, c’è sì una riflessione crescente su questo tema – ricordo il lavoro di Luciano Floridi, che lavora nel Regno Unito, e Maurizio Ferraris –, però non si può dire che l’attuale filosofia italiana abbia una particolare attenzione per la questione dell’intelligenza artificiale o che essa abbia generato prospettive originali. La riflessione filosofica è attenta, tuttavia, ai cambiamenti radicali che tecnologia digitale e intelligenza artificiale comportano nella comunicazione e nella conoscenza. È come se oggi giungessero al massimo di compiutezza elementi con cui comincia l’età moderna. Già nel 1690 il filosofo inglese John Locke sosteneva che parlare significa comunicare e comunicare equivale a informare gli altri di ciò che pensiamo e sentiamo nella nostra mente. Ebbene, oggi questa riduzione del linguaggio e della comunicazione a trasmissione di informazioni è giunta al suo massimo grado proprio grazie alle tecnologie digitali. Ma la riflessione filosofica si propone come antidoto al semplicismo, ossia all’eccesso di semplificazione che oggi colpisce anche l’uso del linguaggio in cui si articolano le relazioni umane. Ecco, allora, uno dei problemi, legato anche a questioni etiche e politiche: quando la comunicazione tra noi umani si riduce alla sola trasmissione di informazioni, va perduta la ricchezza di significati e viene anche impoverita la relazionalità che si realizza nel nostro parlare e comunicare. Se poi teniamo conto del fatto che l’intelligenza artificiale intende la differenza tra vero e falso secondo la logica binaria acceso-spento, allora a semplificazione si aggiunge ulteriore semplificazione, e questo suscita l’attenzione di molti filosofi italiani che, senza dimenticare le tante possibilità preziose offerteci dalle nuove tecnologie, cercano di richiamare la rilevanza primaria e la ricchezza della relazionalità che ci lega gli uni agli altri, sia come esseri umani che come cittadini. Lo stesso discorso può essere ripetuto per la conoscenza. Conoscere qualcosa significa essere in rapporto con essa ed essere trasformati da tale rapporto. Invece raccogliere dati, informazioni, nozioni, è sì necessario, ma non è autentica conoscenza.

Qual è il ruolo della filosofia contemporanea nel contesto del crescente impatto della globalizzazione e del multilinguismo? 

Lei fa bene ad insista sulla questione del linguaggio. La filosofia italiana ha da sempre una autentica passione per Aristotele, secondo il quale noi umani siamo i viventi che hanno il logos, che hanno il linguaggio, che articolano discorsi entro lo spazio etico-politico della città (polis). Come detto prima, parte integrante della sensibilità culturale italiana è il riconoscimento di quanto sia fondamentale la relazionalità sociale, fatta sì anche di eccessi verbali e discorsi ingannevoli, ma comunque realtà ricca di tutte le molteplici sfumature dei rapporti umani. Chi fa filosofia non teme falsità e inganni, ma li sa riconoscere proprio perché ha familiarità con discorsi e comunicazioni di cui non ha una ricezione semplificata. Per quanto riguarda globalizzazione e multilinguismo si può dire che una sfida viene dal fatto che, da molti decenni, la lingua inglese è diventata la lingua del pianeta. C’è dunque un apparente monolinguismo anglofono, che però contraddice la vastità del nostro pianeta e la molteplicità di popoli e di culture che lo abitano. È interessante notare che quando la filosofia si occupa dei rischi del monolinguismo porta l’accento sulla necessità della traduzione delle molte lingue che si parlano in Europa e nel nostro pianeta. Compito della filosofia è oggi ‘tradurre’. In quanto tradurre non vuol dire semplicemente sostituire le espressioni di una lingua straniera con quelle di un’altra, conservando però gli stessi significati. Tradurre, invece, equivale a porre in rapporto ciò che è sia distante che differente, generando nuove significazioni proprio a partire dall’unità che si realizza nel tradurre. Ripeto, tradurre non vuol dire che c’è qualcosa di uguale per tutti, ma io lo esprimo in italiano, mentre un parlante polacco lo dice con il proprio strumento linguistico nazionale. Tradurre non consiste nel sostituire alcuni segni con altri, ma viceversa far venir meno le omogeneizzazioni e le omologazioni che si producono nel monolinguismo globalizzato.

Quali sono le sue previsioni riguardo la direzione della filosofia nei prossimi anni nel contesto geopolitico e su quali questioni, secondo Lei, dovrebbe impegnarsi la filosofia italiana? 

Devo fare una precisazione. Non esiste una filosofia italiana. La filosofia italiana ha infatti molte voci, impostazioni differenti e quasi ogni sede universitaria fa riferimento a una scuola filosofica, che peraltro mostra la sua vitalità proprio nel raccogliere al suo interno voci eterogenee tra loro. A Venezia, per esempio, è stato importante il magistero di Emanuele Severino, ma da esso non sono usciti soltanto allievi fedeli al pensiero del loro maestro. A livello universitario la ricerca filosofica specialistica è estremamente ricca e diversificata, anche se, purtroppo, stenta a svolgere un ruolo civico e politico importante. Ciò si lega a un aspetto che vorrei brevemente richiamare: la ricchezza di studi e ricerche della filosofia italiana fa uno con un suo limite. Oggi l’Europa ha bisogno di kantismo, ma da sempre i filosofi italiani “preferiscono” Hegel a Kant. Oggi l’Europa, e direi il mondo intero, ha bisogno di Husserl, ma noi italiani, compreso il sottoscritto, “preferiamo” Heidegger. L’Europa ha bisogno di illuminismo e dell’insegnamento kantiano per eccellenza: saper giudicare, scegliere e agire in modo che sia valido per tutti, e non solo per noi stessi. Ebbene, sono persuaso che una delle peculiarità delle filosofie italiane – al plurale! – è di articolare riflessioni assai ricche e importanti, davvero degne di attenzione, troppo mirate però a enfatizzare le mancanze del moderno, anziché i pregi di questo, decisamente irriducibile a portatore del relativismo e dell’economicismo. D’altronde, la modernità individualista, capitalista e finanziaria nasce in Inghilterra e in Olanda (nel Seicento), così come l’illuminismo scientifico e libertario nasce in Francia (nel Settecento). La cultura filosofica italiana è da sempre più impegnata a elaborare un antidoto nei confronti di questa modernità “venuta da fuori”, percepita come distruttiva sia nei confronti della relazionalità umana che di quanto è storicamente tramandato. Insisto: fermo restando il rischio di sordità verso “i meriti del moderno”, tutto questo nel contempo alimenta e spiega la ricchezza e la raffinatezza del pensiero filosofico italiano. I due più importanti pensatori italiani tardo-moderni, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, filosofi raffinatissimi, quanto influenti, ben confermano tutto questo.

Quindi possiamo definire i filosofi italiani come una minoranza piena di meriti, estranea però al contesto moderno filosofico mondiale e quindi incapace di lasciarvi un segno? E ciò vale anche, per esempio, per Umberto Eco, Gianni Vattimo, Giorgio Agamben e Ludovico Geymonat? 

Certo, se ci domandiamo dell’influenza della tradizione filosofica italiana a livello europeo e mondiale, dobbiamo subito riconoscere che essa è limitata dall’impiego della lingua italiana, nota a chi si occupa di musica e di arte, ma poco conosciuta e poco tradotta dai filosofi stranieri. Credo però che alla filosofia italiana abbia nociuto sia il trovarsi prevalentemente in posizione critica verso alcuni tratti del pensiero moderno, sia la disabitudine del nostro ceto politico a consultare i filosofi. Dei quattro nomi che Lei mi propone, Eco, Agamben, Vattimo e Geymonat, almeno i primi tre sono stati tradotti all’estero. Geymonat è un caso a parte. È stato un studioso notevole, anche lui fondatore di una scuola importante, tuttavia in quanto difensore di uno spirito razionale, ateo, scientifico e marxista, è per molti versi poco rappresentativo della filosofia italiana e poco tradotto all’estero. Eco, invece, pur brillante studioso di semiotica, a mio avviso non può essere considerato un filosofo. Di questi quattro, Gianni Vattimo e Giorgio Agamben sono gli unici la cui prospettiva originale sia entrata anche nel dibattito internazionale. Agamben soprattutto nel contesto francese contemporaneo, a partire dal suo Homo sacer, Vattimo anche nel contesto statunitense, grazie al dialogo con Richard Rorty e con John Caputo. Appartenente alla scuola di Luigi Pareyson, Vattimo è riuscito a far fruttare le conseguenze etico-politiche di un motivo teologico cristiano (Paolo di Tarso): incarnandosi in un corpo umano il Dio cristiano si è svuotato della propria lontananza assoluta per entrare nella storia umana e liberare con la propria debolezza gli esseri umani da ogni verità autoritaria.

Provando ad avvicinare un po’ di più la filosofia ai nostri lettori, faccio riferimento alle critiche di modalità del moderno che ha menzionato. Lei viene da un mondo vintage dove viaggiare voleva dire sperimentare, partire, fare delle conoscenze, scoprire dei posti nuovi mettendosi in goco. Invece oggi viaggiare significa ripercorrere sentieri già battuti da un qualche blogger. Cosa ne pensa?

La differenza tra viaggiatore e turista ha ormai più di 150 anni. Il britannico Thomas Cook ha inventato il turismo a metà dell’Ottocento. Il viaggiatore si espone a ciò che troverà cammin facendo, il turista, invece, incontra solo quello che ha programmato di incontrare. Oggi, in effetti, siamo tutti turisti, anche quando cerchiamo di esserlo in maniera non superficiale. Il bisogno quasi ossessivo di pianificare, di prevedere e programmare si è esteso anche al nostro tempo libero e ai momenti di piacere. Ma chi fa filosofia non deve approdare frettolosamente a troppo facili giudizi sullo scadimento dell’esperienza umana del viaggio. È vero che le giovani generazioni si lasciano guidare dai suggerimenti degli influencer e dai “viaggi già fatti” da questi ultimi, ma il gioco con la sorpresa e con quanto è diverso dalle attese rimane. Resta per almeno due motivi: perché la realtà è sempre più ricca e imprevedibile di quanto mai noi possiamo attenderci e programmare, e perché è proprio di chi è giovane divertirsi, anche viaggiando, con il gioco delle discordanze, cercando il diverso da quanto è stato suggerito, consigliato. Forse capita più spesso a chi è avanti negli anni di chiedere che il viaggio corrisponda a quanto programmato!

Chiudiamo con un consiglio di lettura: a chi volesse avvicinarsi alla filosofia italiana attuale può suggerire tre nomi di autrici/autori?

Facendo torto a molti importanti studiosi italiani che qui non citerò, provo a menzionarne tre tra quelli capaci di scrivere non solo per lettori specialisti. Il primo è Salvatore Natoli, di cui posso ricordare “L’esperienza del dolore” e “La felicità. Saggio di teoria degli affetti”. Il secondo studioso di rilievo che suggerisco è Roberto Esposito, il quale, per esempio in “Communitas. Origine e destino della comunità” e “Immunitas. Protezione e negazione della vita”, riflette sulle strategie attraverso le quali una società immunizza se stessa, da un lato proteggendosi da ciò che considera pericoloso-minaccioso, ma dall’altro anche così chiudendosi in modo autoreferenziale, escludendo l’estraneo. Infine, mi fa piacere ricordare Donatella di Cesare, la quale da diversi anni coltiva – per citare uno dei titoli dei suoi scritti – “la vocazione politica della filosofia”, cui aggiungerei, per esempio, “Stranieri residenti” e “Democrazia e anarchia. Il potere nella polis”, scritti nei quali affronta due urgenti fenomeni odierni, il fenomeno della migrazione e quello dei limiti e delle contraddizioni del potere democratico.

“La straniera” – romanzo costellazione

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Claudia Durastanti è scrittrice e traduttrice nata a Brooklyn nel 1984. A sei anni si è trasferita con la madre e il fratello a Gallicchio in Basilicata. È membro del consiglio organizzativo della Fiera Internazionale di Torino, ed è una delle fondatrici del Festival della Letteratura Italiana di Londra. Ha debuttato nel 2010 con il romanzo “Un giorno verrò a lanciare i sassi alla tua finestra”, che ha vinto il Premio Mondello Giovani. Il suo romanzo più acclamato “La straniera” (2010) è arrivato alla finale del Premio Strega; è stato premiato con il Premio Strega Off e con il Premio Luigi Russo, inoltre è arrivato tra i finalisti dei premi Alassio Centolibri, Viareggio e Stresa. Il libro è stato tradotto in oltre venti lingue ed è previsto un adattamento in serie TV. In Polonia è uscito per la casa editrice Czarne con la traduzione di Tomasz Kwiecień.

Leggendo “La straniera” si sente che è una storia che avevi bisogno di raccontare, come se volessi liberarti dei ricordi. Però nel libro dici che l’autobiografia è un genere bastardo che è nelle mani di persone che hanno bisogno di salvezza, come donne, migranti, disabili. Tu volevi essere salvata o volevi salvarti?

Quando ho scritto questo libro mi sono resa conto che ci ho pensato tutta la vita. Ho sentito che c’era dentro di me un desiderio di lasciare andare alcune cose ma per scriverle dovevo prima riavvicinarle. Natalia Ginsburg diceva che si è avvicinata alla scrittura autobiografica a passi da lupo, è un’immagine molto interessante perché sembra una cosa che si fa in maniera un po’ guardinga. Io credo d’essere stata molto influenzata dall’idea che la letteratura salva la vita e che io mi volevo salvare e volevo salvare anche i miei genitori. Un’operazione che mi auguro sia successa non solo perché racconto fatti traumatici familiari, ma lo sia per la forma del libro e anche la lingua con cui l’ho scritto, lo stile, la poesia, la visione elementi che vanno oltre l’esperienza biografica, altrimenti non so che senso avrebbe pubblicare queste storie. 

Nel libro torna a vari livelli il concetto dell’essere straniero. All’inizio abbiamo l’estraneità territoriale. Sentivi la nostalgia dei posti da cui andavi via o il fatto di abitare in luoghi diversi ti ha permesso di sentirti più radicata in varie culture?

È interessante questa domanda perché secondo me il viaggio interno nel libro è quasi un rovesciamento. Per mia madre la condizione di essere straniera era una condizione di libertà, una forma di diversità positiva dagli altri. Invece per me che ero bambina era l’esatto opposto, era una differenza a polo negativo, un segno di esclusione e di marginalizzazione. Credo d’aver scritto questo libro proprio per invertire la corrente da negativa a positiva e anche un po’ per sfidare quel concetto di mancanza. Quando sei straniero tendono un po’ a rinforzare il messaggio che casa non è da nessuna parte, che questa libertà nello spazio è una forma di malinconia. Io invece sin da bambina sono stata estremamente nostalgica, quindi in qualche modo ho fatto di tutto per difendere gli Stati Uniti, Brooklyn nello specifico, che poi abbiamo lasciato per trasferirci in Basilicata. Secondo me questa cosa tra città e campagna è importante. Se mia mamma si fosse trasferita a Roma credo che avrei sentito di meno l’essere proprio strattonata tra due mondi molto diversi. 

Poi mentre scrivevo mi sono resa conto che io avevo tante radici. Quindi per me l’identità era quasi un problema selettivo. E sono arrivata alla conclusione che siamo fatti di tante appartenenze e che ci sono dei momenti in cui ne raccontiamo una o due, però le altre non necessariamente non esistono più, rimangono lì in attesa di essere riesplorate in un’altra occasione. Quando mi sono trasferita in Inghilterra anch’io sono diventata una migrante, come mia madre e mia nonna. E credo che sia proprio questa concezione proliferante, quasi infestante, di essere straniera contemporaneamente in più posti che ha fatto sì che io riuscissi a uscire da questa rappresentazione di straniera come mancanza e trasformarla in presenza.

Poi abbiamo l’estraneità a livello familiare ovvero la sordità dei tuoi genitori vista dagli altri e da te che ci sei cresciuta.

Dopo l’uscita del libro, mi sono chiesta: come sarebbe stata la scoperta della sordità dei miei genitori in una società che non emarginava la disabilità? La mia sofferenza nell’infanzia veniva dal limite fisico di mia madre che non mi poteva sentire o invece da un mondo esterno, scuola, parenti, istituzioni, società in senso generale, politica, che mi facevano vivere quella sordità come un peso? Ho quindi cercato di pensare al momento in cui ho realizzato che i miei genitori sono sordi e sono sicura che me l’ha detto qualcuno, perché nella fase di apprendimento della lingua noi chiaramente non ce ne rendiamo conto. E quindi credo d’averlo capito nel momento in cui qualcuno è entrato e mi ha detto guarda che tua mamma è diversa da te. E allora abbiamo iniziato ad abitare veramente in due mondi diversi che forse non era necessario. Poi la mia sofferenza è stata determinata da alcune stranezze di mia madre, dal suo carattere eclettico, quello di un’artista con problemi di salute mentale. Solo scrivendo il libro ho avuto la possibilità di dare a queste differenze un significato mio che fosse un po’ svincolato da tutto il condizionamento che arriva quando tu esci di casa e ti confronti con la società. Secondo me non è un caso che ho iniziato a scrivere “La straniera” quando avevo 34 anni, che era l’età di mia mamma quando dagli Stati Uniti si è trasferita in Italia. Quando siamo vicini a persone che hanno una disabilità, quasi sempre ci chiediamo cosa ha fatto a noi quella disabilità. Io invece mi domandavo che cosa la disabilità aveva determinato nei miei genitori, capire se volevano ribellarsi, se il loro desiderio di libertà e di autonomia venisse represso costantemente. Durante una delle prime interviste che ho fatto quando è uscito il libro, a Farenheit di Radio 3, Loredana Lipperini mi ha detto che nonostante la sordità dei miei genitori per lei loro sono anche persone che erano ventenni negli anni Settanta. E io ero quasi commossa perché era bello il fatto che una persona riuscisse a iscrivere i miei genitori in una storia generazionale collettiva, perché era un po’ come se fossero stati sempre esclusi. Ho scritto il libro perché mi mancavano nelle storie che leggevo. 

Anche il linguaggio che usavate dentro il vostro nucleo familiare lo possiamo definire come estraneo per gli altri?

Qui è interessante la questione della migrazione. Quando stavo traducendo il libro “Chinatown interiore” di Charles Yu, che è ambientato in una Chinatown americana immaginaria e parla della migrazione cinese, ad un certo punto ci sono due personaggi e uno parla lentamente usando una vecchia forma di cinese. E l’altro gli dice: “Sono straniero, non sono sordo”. E io mi sono resa conto che spesso si crea un equivoco e le persone sorde vengono trattate come se fossero straniere, invece le persone straniere, migranti, vengono trattate come se fossero sorde. E nella mia famiglia questo equivoco raggiungeva dei livelli stratosferici perché ogni volta che mia madre rivedeva i suoi fratelli che erano andati in America, loro le parlavano come se non fosse sorda. E io un po’ mi arrabbiavo, loro invece mi dicevano che ormai viviamo in paesi diversi e parliamo una lingua immaginaria.

E quella cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che ognuno di noi ha un “lessico familiare”, nel mio caso è particolarmente stratificato perché appunto c’è anche una sordità di mezzo. Però io sono straniera pure nel mondo dei sordi perché non parlo la lingua dei segni. Parlavo l’italiano dialettale dei miei nonni, l’inglese provvisorio dei miei familiari che non avevano studiato quindi era una dimensione linguistica molto particolare, una polifonia legata all’assenza di regole e alla tendenza a inventare. 

Nel libro scrivi che “il linguaggio è una tecnologia e le parole sono come fiamme che ci avvicinano al non detto. E quando non ci sono parole, quello che permette la comunicazione sono i gesti.” Secondo te sono più importanti le parole o i gesti, o forse entrambi? 

Questa è una domanda molto bella. Sono stata una bambina molto verbosa e sono una scrittrice molto verbosa. Anche nelle mie relazioni affettuose, sentimentali, sono stata orientata al logos e al definire, ovvero l’amore, il sentimento, l’amicizia esistono nella misura in cui io lo comunico a parole. Ma dopo aver scritto “La Straniera”, è come se mi fossi riavvicinata un po’ di più a questa componente nascosta o più tattile e non verbale. Quindi anche se non conosco la lingua dei segni è come se avessi recuperato anche un uso diverso del silenzio, ma non un silenzio come assenza, ma un silenzio come presenza. Quindi oggi ti direi che sono una persona che articola le forme di espressione e chissà se diventerà un’influenza anche nella scrittura, perché mi piacerebbe mostrare il silenzio anche visivamente sulla pagina. 

Stranieri siamo anche nelle nostre relazioni amorose? 

Io sin da bambina avevo questa idea romantica, presa dalle serie televisive americane, che probabilmente la relazione sarebbe stata una sorta di viaggio temporale con qualcuno che non era destinato a finire. Invece scrivo il libro e mi rendo conto che paradossalmente la prima cosa che tu dici alla persona che ami è anche l’ultima cosa che le dici quando non ci stai più insieme. Cioè che è straniera all’inizio perché ancora non la conosci, poi si crea una fase di lunga somiglianza e poi c’è la nostalgia della perdita della simbiosis, che è quella che racconto nel libro, in cui ritorna una forma di estraneità e di incomprensione. E, a proposito del linguaggio, per me l’amore con qualcuno è soprattutto un modo di parlare, un lessico amoroso che capiscono solo le due persone che lo usano. E quando tornano a parlare come due persone estranee, anche se sono nella stessa casa, sono in continenti diversi. Per me è stato interessante vedere l’ambivalenza del concetto di estraneità proprio nell’amore.

Fai tanti riferimenti alla letteratura polacca ed il colore rosso della copertina dell’edizione italiana è legato al film di Kieślowski.

È vero, cito l’amicizia di Malinowski e Witkiewicz che sono un po’ un fantasma della voce narrante rispetto alla madre. Parlo del romanzo omonimo di Maria Kuncewiczowa. Il mio viaggio a Danzica. La storia della copertina invece è interessante perché io avevo sempre percepito che il colore doveva essere blu – e non rosso come mi ha consigliato mia madre – ritenevo di aver scritto un romanzo-costellazione ovvero quello che dice la Tokarczuk nel libro “I vagabondi”, lettura per me molto importante. Ero andata a sentirla alla British Library e lei aveva usato questa espressione. Mi sono detta gliela rubo perché veramente sento che questo è un po’ il metodo che ho usato. La cito quando dico “una storia familiare è più simile a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Per queste ragioni la copertina rossa mi sembrava una imposizione ed invece aveva senso.

 

Gazzetta Italia 108 (dicembre 2024 – gennaio 2025)

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Il numero 108 si apre con un imperdibile articolo sulla celebre discesa a Roma nel 1700 della regina Maria Casimiera, con al seguito un ampio spaccato della corte polacca. E Il bel testo “Marysienka a Roma” di Francesca Ceci si potrà anche ascoltare, letto dall’autrice, grazie al podcast online accessibile con il QRcode che trovate su Gazzetta Italia. A seguire i blogger di un “Tavolo per due” ci raccontano alcune delle loro mete preferite dell’Italia, il Paese che ha cambiato non solo le abitudini di viaggio ma anche la loro vita privata! Gazzetta poi si conferma sempre anticonformista e all’avanguardia proponendovi una lunga intervista al professore di Filosofia dell’Università di Venezia Gian Luigi Paltrinieri che ci parla tra l’altro di giovani e intelligenza artificiale, di linguaggio nell’era della globalizzazione, di turisti e viaggiatori. Lettura assolutamente da non mancare! Ma non vogliamo anticiparvi tutti i titoli che troverete sul nuovo numero in cui tra l’altro inizia, con l’intervento della chef Cristina Catese, la collaborazione con la sezione polacca della Federazione Italiana Cuochi che ci regala anche la ricetta dello chef Fabio Pantano. Insomma correte negli Empik, o scrivete a redazione@gazzettaitalia.pl, per prendere la vostra copia di Gazzetta Italia!

(Numero 108 disponibile da lunedì 9 dicembre)

Asiago – altopiano delle meraviglie

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Vista da vetta Caldiera

Fino allo scorso luglio parlare di Asiago per me, e per un altro paio di inguaribili giocatori, era soprattutto sinonimo di feroci battaglie a Risiko. Quell’irresistibile gioco da tavolo capace di tenerti per ore concentrato in strategici spostamenti, ritirate tattiche e furiosi attacchi. Ma cosa c’entra Asiago con il Risiko? Il problema è che siamo degli eterni adolescenti. Ancor oggi come ai tempi del liceo e dell’università – quando ci trovavamo una volta la settimana a giocare a casa mia o del caro amico Carlo, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra in zona Zattere a Venezia – continuiamo a incontrarci, sempre gli stessi, almeno una volta l’anno con i dadi in mano pronti a dichiarare: “attacco la Kamchatka”! 

Carlo dopo l’università si è trasferito in una splendida villa ad Asiago che ha trasformato, insieme alla sua infaticabile compagna di vita Donata, nell’accogliente B&B Ai Tre Larici che da anni ospita i nostri weekend di Risiko, in cui 3-4 attempati uomini, con sottofondo di musica pop anni 80, si chiudono in salotto a giocare senza tregua; uniche soste concesse per mangiare, dormire e andare al bagno.

“Ma quand’è che vieni su ad Asiago e ti fermi qualche giorno anche senza il Risiko?”, mi ripetevano da anni Carlo e Donata che giustamente vanno fieri dell’altopiano delle meraviglie, in cui la bellezza del paesaggio si interseca con la storia, in particolare della Prima Guerra Mondiale, che ha segnato indelebilmente queste terre. Sia chiaro, l’altopiano di Asiago è famoso, non è che non conoscessi proprio nulla ma diciamo non mi ero mai veramente dedicato a esplorarlo. 

La svolta di luglio è stata strategicamente concertata da Donata che invitandomi a presentare il mio racconto “Corte Polacca” (edito da Austeria), nell’elegante palazzo del Municipio di Asiago sapeva che mi avrebbe trattenuto qualche giorno. E così è stato!

Nella prima uscita, insieme ai compagni di viaggio Agata, Alessandro, Ania e Stefko, abbiamo risalito l’Ortigara, cima (2.106 metri), al confine tra Veneto e Trentino Alto-Adige, famosa per l’omonima cruenta battaglia che, tra il 10 e il 29 giugno del 1917, vide impegnati ben 400 mila soldati dei due schieramenti: italiano e austroungarico. Eventi che vengono ricordati con numerose targhe lungo la salita nel bosco di pino mugo dove si incontrano la chiesetta Lozze, il punto d’appoggio “Baito Ortigara” e alcuni tratti di trincea prima di raggiungere la vetta dove nel 1920 fu posta una colonna mozza con l’iscrizione “Per non dimenticare”. 

Nonostante la fatica, dopo aver raggiunto la vetta dell’Ortigara, ci siamo lanciati – col cuore, più che col fisico – verso l’altra vicina cima Caldiera (2.124) dove siamo giunti stremati alla meta ma felici prima di intraprendere la strada del ritorno e presentarci la sera a Carlo e Donata orgogliosi di poter raccontare d’aver completato l’intero percorso.

Il giorno seguente, con ancora un po’ di acido lattico nelle gambe, abbiamo raggiunto in auto il rifugio Larici “Da Alessio” a 1658 metri da cui abbiamo preso un sentiero ad anello che dopo averci portato su in alto a Cima Larici ci ha ricondotto, affamati, al rifugio dove ci siamo ampiamente rifocillati con zuppa di montagna, grigliata di carne mista con polenta e ovviamente crostata di mirtilli e caffè!

Provati dalle camminate dei giorni precedenti per la terza escursione abbiamo deciso di visitare il Forte Corbin raggiungibile in auto. Situato in prossimità del Monte Cengio e del paese di Treschè Conca, il Corbin fu uno dei forti italiani che costituivano la linea difensiva sulle Prealpi vicentine. Costruito a partire dal 1906 su uno sperone di roccia proteso sulla Valle dell’Astico con lo scopo di difendere la vallata da eventuali invasioni austroungariche, il Corbin in realtà ebbe un ruolo marginale nel conflitto. Abbandonato fin dagli anni Venti del secolo scorso il Forte Corbin è stato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, restaurato e valorizzato dalla famiglia Panozzo, che lo ha reso un interessante museo sulla Prima Guerra Mondiale. Il Forte oltre a mostrare la pianta e gli interni della struttura militare, che seppur a cielo aperto sono ben conservati, offre anche panorami incredibili e un piccolo ma interessante museo con oggetti della guerra 1915-1918.

Municipio di Asiago

L’intensità di questa tre giorni asiaghese non è comunque riuscita a scalfire l’attenzione che dedico a tutto ciò che ha un’attinenza con la Polonia, così segnalo con piacere come molte iscrizioni e targhe commemorative sull’Ortigara riportano anche la traduzione in polacco, cosa che mi ha fatto ricordare che tra Italia e Polonia durante la prima Guerra Mondiale ci fu una sorta di intesa segreta che spinse molti polacchi a disertare dall’esercito austroungarico per unirsi agli italiani nella speranza, poi realizzata, che la sconfitta di Vienna aprisse le porte alla rinascita dello stato polacco. 

Parlando poi dell’asiaghese più famoso, ovvero il celebre scrittore Mario Rigoni Stern, autore tra l’altro del capolavoro “Il sergente della neve” in cui racconta la complicata, dolorosa, ritirata dalla Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, mi è saltato subito all’occhio che, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati, il sergente Rigoni Stern fu incarcerato con i suoi uomini nel campo di concentramento a Olsztynek da dove, dopo due anni di prigionia, fu liberato dall’avanzata dell’Armata Rossa. Così dalla Masuria raggiunse la lontana Asiago a piedi. 

Ma la Polonia, manco farlo apposta, torna protagonista anche l’ultima sera: cenando con Carlo e Donata ci raccontano che quando i figli erano piccoli hanno avuto per qualche anno il fondamentale supporto di Agnieszka una indomita ragazza di Katowice che con la medesima cucinava zuppe polacche e spalava neve alleviando non poco la quotidianità di Carlo e Donata. 

Chiesa Lozze

Ammetto che siamo ripartiti da Asiago con la sensazione d’aver appena iniziato a scoprire questo eccezionale territorio caratterizzato da innumerevoli sentieri di montagna da scoprire, tra malghe, laghetti, trincee e forti. Un’offerta naturalistica attraente in ogni stagione – d’inverno si può sciare e far ciaspolate – arricchita da un intenso programma d’appuntamenti culturali tra cinema, presentazioni di libri e concerti, e da altre attrazioni tra cui merita sicuramente una visita anche l’osservatorio, uno dei più importanti d’Italia, che ci fa scoprire i segreti della nostra galassia. Una terra generosa anche di prodotti agroalimentari tra cui spicca il celebre formaggio Asiago Dop, esportato in tutto il mondo, oltre al miele e alle marmellate.

Se volete togliervi gli ultimi dubbi sul fatto che valga la pena visitare Asiago (e se andate Ai Tre Larici la sera potete pure giocare a Risiko!), date un’occhiata al sito.

Forte Corbin

Chi dice, chi tace e chi si dimentica le domande

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Chiara Valerio e Sebastiano Giorgi

Venezia è tuttora un ricettacolo di fermenti intellettuali. Le disgraziate politiche amministrative, incapaci di difendere la residenza e di mantenere la deriva turistica in una dimensione sopportabile, non sono però riuscite a scalfire, almeno finora, l’irresistibile fascino attrattivo che la città esercita su chi ama e vive di arte, scrittura, musica, cinema. E così nell’ultima domenica del torrido agosto veneziano ho avuto la fortuna d’incontrare al bar Chiara Valerio scrittrice, curatrice editoriale, direttrice artistica e conduttrice radiofonica, di cui mi piace ricordare anche la straordinaria orazione funebre per l’amica Michela Murgia.

Seduti al tavolino sembravamo un po’ la copertina dell’album “Una donna per amico” del mitico Battisti, ma mentre Lucio, che incise quel LP nella capitale inglese, si fece fotografare al londinese Grapes’s Caffè, noi ci siamo incontrati in Campo Santa Margherita al bar Duchamp, e per coerenza al pittore francese la nostra conversazione ha preso una piega dadaista. Doveva essere una intervista ma io non ho fatto domande, Chiara non ha dato risposte e ognuno ha parlato di ciò che gli passava per la testa.

Ho cominciato senza domanda: “Cito una tua frase: i romanzi sono il contrario della tifoseria, perché leggi ma non devi prender posizione, ti abitui a non fare confusione tra autore e opera”.

“Ho appena riletto le Particelle elementari di Michel Houellebecq. Mi domandano come si faccia ad amare un uomo che scrive di donne che sono vittime di orge, mi chiedo se è tanto peggio della figura femminile che esce dal verismo italiano o dal naturalismo francese, uccise da lavoro e da doveri asfissianti”, risponde Chiara con quello sguardo intriso di lucida tensione che stimola l’interlocutore ad utilizzare il 100% dei neuroni per provare a restare aggrappato alla velocità di pensiero di Chiara, al suo parlare per metafore e simbologie.

“Noi dobbiamo restare fedeli alla pagina, uno scrive una cosa e quella vuole dire punto. Non dobbiamo tirare il testo in interpretazioni che si allontanano dal senso della parola scritta. Sovrapporre autore e opera è una forma d’analfabetismo culturale, pensiamo che uno possa scrivere solo di quello di cui ha fatto esperienza diretta? Ma davvero? E quello che una persona ha immaginato, sentito, letto, scritto, desiderato dove va a finire? È come se volessimo abbattere il valore del linguaggio, noi abbiamo cominciato a parlare per comunicare e quello che dicevamo era credibile ma non per forza vero”.

Provo a sintetizzare: “la scrittura è figlia di quello che è l’autore”.

“La curiosità per uno scrittore mi nasce eventualmente solo dopo aver letto quello che scrive. A 13 anni dopo aver metaforicamente bevuto tutta la Yourcenar mi sono chiesta chi era nella vita”.

Senza motivo intervengo: “cito un’altra tua frase: è l’imperfezione che fa muovere il mondo”.

“Perché non è così?” ribatte Chiara “l’imperfezione è la natura del mondo, me l’ha insegnato la matematica. Una volta a lezione parlavo del mio sforzo per arrivare alla migliore approssimazione. Il mio professore mi chiede quanto tempo ho perso e aggiunge a volte l’approssimazione migliore è la prima che ti viene. Insomma dobbiamo accontentarci di un 80%, nulla è perfetto, e il sapere che a volte bisogna semplicemente accettare che non c’è alcuna soluzione è bellissimo!”

Interrompo: “si può progettare matematicamente un romanzo?”

“La matematica mi serve come metodo per non credere all’autorità di chi si vuole imporre, la matematica ti porta oltre il conformismo e nel farlo diventa motore di innovazione, dopotutto è pura immaginazione: esiste il punto che non ha parti? Esiste il parallelismo? John Le Carrè parla di geometria utile non vera”.

Eppure dovrei fare una intervista così dico: “Ci piace associare l’Italia alla cultura ma forse parliamo al passato, di cultura antica, oggi siamo tra i Paesi europei in cui si legge meno…”

“Al mondo siamo oltre 10 miliardi di persone ma le discussioni intellettuali si svolgono in un piccolo fazzoletto di Paesi dove c’è un livello borghese di vita supportato da un sistema di diritti. In Italia ci sediamo su una idea di cultura perché abbiamo l’80% dei siti Unesco del mondo, siamo un luogo comune culturale, guarda dove siamo seduti…abbiamo intorno Venezia, dico Ve-ne-zia. Tu vuoi dirmi che oggi gli italiani sono come gli egiziani di fianco alle Piramidi? Sì è così. Possiamo però recuperare, anche se sarà un processo lento, dobbiamo accettare d’essere oggi una lingua minoritaria e investire di più nel far tradurre i nostri libri in altre lingue. Il mercato del libro vale 6 miliardi in Germania, 3 in Francia, 1,5 in Italia.”

Butto là: “nel frattempo cresciamo giovani che dialogano con l’Intelligenza Artificiale e sembrano indifferenti alle nostre preoccupazioni esistenziali”.

“Fanno battaglie su istanze ecologiche e con una grammatica che non capisco e non conosco, sembra più distruttiva che conciliativa sincretica, ma non possiamo altro che credere nel futuro, è chiaro che chi ha 20 anni vede più avanti di me che ne ho 46. Non sono paternalista e non voglio dirgli che si fa in un modo piuttosto che in un altro. Semplicemente gli credo. È una collettività diversa da quella in cui siamo cresciuti noi, è una collettività con meno corpo. Prendiamo ad esempio l’AI per me è una faccenda culturale, per loro è naturale, così come per me la macchina da scrivere era naturale e per mio padre era un oggetto culturale. Dobbiamo aspettare di vedere quello che costruiscono con mezzi che sono per loro naturali, se guardo mio nipote che ha 2 anni la sua prossemica è indifferente tra il vedermi dal vivo o in videochiamata, bacia lo schermo per salutarmi, io devo credergli se lui pensa sia corpo. Ci preoccupiamo che macchine scrivano libri o dipingano quadri? Recupereremo il valore della fisicità e dell’oralità. Insomma se deve andare così che vada, sono più curiosa che preoccupata. Giovani impigriti dalle macchine? Più che di pigrizia direi addomesticamento ti impediscono di esercitarti a risolvere certi problemi. Torneremo a dar valore all’ars facere, ovvero a sapere una cosa ma soprattutto a saperla fare, che poi sia col tuo corpo o con i dispositivi che avremmo a disposizione cambia poco. Guardare al futuro con pensiero apocalittico non mi interessa perché è deresponsabilizzante. Se deve finir tutto a breve e allora che te ne frega di come ti comporti oggi?”

Senza motivo dico: “ho studiato greco e latino ma non saprei tradurre nulla”.

“Io ho studiato 13 anni matematica e oggi non distinguo se una equazione di 3° grado sia risolvibile o non risolvibile. Greco-latino l’averli studiati ti è stato fondamentale, ti ha strutturato la mente anche se oggi non sai tradurre, il funzionalismo (ovvero ho studiato una cosa quindi devo saperla per sempre) non ha senso”.

Senza alcuna logica coerente improvvisamente mi trovo ad imprecare contro il tentativo di mettere un biglietto d’entrata a Venezia: “ma se uno ha un’amante di fuori regione che vuol fargli una sorpresa andandolo a trovare a casa a Venezia deve pagare il ticket?”

“Kundera sarebbe impazzito! Io a Venezia ci vengo ogni volta che posso col mio gatto. Ma tu parli polacco?”

“Sì o almeno ci provo”, rispondo.

“Una lingua la impari con l’amore o parlando con i bambini. Ho letto moltissimi scrittori polacchi. Da editore ho pubblicato due libri della Tokarczuk, scrittrice enorme, ovviamente mi accodo perché le hanno già dato il Nobel. Da ragazzina ho letto la raccolta dei premi Nobel e ovviamente Sienkiewicz, “Quo vadis”, ovvero parlare del presente attraverso Roma antica. La Polonia è un Paese di contrasti, dal punto di vista letterario lo amo, Pan Tadeusz, poema nazionale che si apre con “O Lituania mia patria perfetta”!

Aggiungo: “bè il refrain dell’inno nazionale è dalla terra italiana alla Polonia”.

“È un Paese di contraddizioni e questo genera grande letteratura, penso a Ferdydurke, Kosmos, Pornografia di Gombrowicz e poi l’ironia della Szymborska, i reportage di Kapuscinski. A proposito bello il libro sulla mitteleuropa di Francesco Cataluccio “Vado a vedere se di là è meglio”. E vogliamo parlare di Mariusz Szczygiel? Non puoi parlare dei problemi del tuo Paese così li tratti scrivendo della Repubblica Ceca? Il fatto è che quando ridi le cose le capisci meglio, e mentre l’intellettuale polacco è ironico e non tragico quello italiano tende alla noiosa seriosità”.

Chioso: “In Polonia si legge ancora Boccaccio”.

“Di sicuro più che in Italia. Ma poi scusa il cinema dove lo mettiamo? Sono cresciuta ai tempi di Fuoriorario quando trasmettevano senza soluzione di continuità Wajda, Zanussi, Kieslowski”.

Inevitabilmente chiedo: “sei stata spesso in Polonia?”

“Mai stata! Ma ad inizio 2025 pubblicano in polacco il mio romanzo “Chi dice e chi tace” e verrò di sicuro! Invitatemi!”.

Ora mi ricordo… il suo ultimo romanzo! Ecco cosa dovevo chiederle. Che figuraccia, non mi resta che sperare che gli Istituti Italiani di Cultura di Varsavia e Cracovia la invitino presto così rimedio.

Palermo

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Quattro Canti

traduzione it: Agata Pachucy

Non è stato un colpo di fulmine. Mentre guidavo per le strade della città spaventato dal caos che mi circondava, non pensavo all’amore. Pensavo solo al bisogno elementare di sopravvivenza. Non sapevo ancora che presto avrei capito il codice della strada a Palermo.

Mi infastidiva la sua intensità. Tutto moltiplicato come nel quadro di Renato Guttuso La Vucciria. Nel trambusto di un mercato cittadino due uomini che commerciano, un pescatore e un contadino pronti a fare una rissa, solo lei li separa. In un abito bianco, muovendo i fianchi, domina il resto dei personaggi. Forse è Marta, la musa dell’artista siciliano?

La Cala di Palermo

E perché mangia sempre in piatti di plastica se Palermo non riesce a smaltire i rifiuti? Una volta andando verso Borgo Parrini, il GPS mi ha portato per le strade secondarie in cui sembrava di viaggiare in mezzo a discariche. Non riuscivo a sollevare il mio pensiero sopra le montagne di rifiuti. Mi ha aiutato il libro “I ratti di via Veneto”. Piotr Kępiński mi ha fatto capire che il senso di superiorità dei settentrionali nei confronti dei siciliani e del loro “problema rifiuti” non serve a nulla.

Sapevo che era coraggiosa come Rita Atria. Rita aveva testimoniato contro la mafia siciliana. Ha collaborato con l’investigatore Paolo Borsellino che, a quanto si dice, la trattava come una figlia. Quando, nel maggio del 1992, Giovanni Falcone fu ucciso in un attentato in autostrada a Capaci e due mesi dopo, in un altro attentato davanti all’appartamento della madre, morì Borsellino, Rita sapeva che nessun altro era in grado di difenderla. Si tolse la vita.

Mercato Ballarò

Sapevo che era intransigente come Letizia Battaglia. In una società conservatrice, Letizia si è battuta a lungo per il diritto di esercitare la sua professione. Era la fotografa dell’ormai scomparso giornale L’Ora negli anni in cui le morti per le strade di Palermo erano un fatto quotidiano. Una foto trovata nel suo archivio ha dimostrato i legami diretti dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti con Cosa Nostra.

Sapevo che era orgogliosa come Malena Scordia, il cui ruolo è stato ruolo interpretato da Monica Bellucci nel film “Malena”. Maltrattata e umiliata da suo padre e dalla gente del posto, una donna a testa alta passeggia per le strade di una città siciliana.

Basta questo per innamorarsene?

W drodze do Erice / Sulla strada per Erice

6-8/11/24 Fiera HoReCa: La Sicilia a Cracovia

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“Regione Gastronomica Europea 2025”, questa è la Sicilia che, prima in Italia ha ricevuto questo prestigioso premio dall’IGCAT (Istituto Internazionale Gastronomia, Cultura, Arte e Turismo). I rappresentanti polacchi del settore alimentare potranno ora conoscere, durante la fiera HoReCa in programma dal 6 all’8 novembre a Cracovia, i vini e gli oli d’oliva siciliani. Camera d’Affari Polacca in Italia (CAPI) insieme a Smart Iting, hanno invitato a partecipare alla fiera l’Istituto Regionale dell’Olio e del Vino della Sicilia IRVO. I rappresentanti dei produttori di vino siciliani: Regalpetra srl Società Agricola, Cantina CVA Canicatti, Candido Vini Camporeale, Azienda Agricola Foraci SS, Marchesi di Rampingallo, invitano allo stand E39, Sala DUNAJ, dove hanno preparato un’offerta interessante per ristoratori, distributori e importatori.

La Sicilia con i suoi 99.000 ettari di vigne e le 26.520 aziende agricole dedite al vino è la seconda regione italiana per superficie coltivate, ma anche il numero delle aziende agricole. Aggiungiamo a questo circa mille aziende vitivinicole, di cui circa 40 sono enti affiliati, che portano ad una produzione media di uva negli anni 2020-2023 pari ad un valore di circa 6,9 milioni di quintali, e vini e mosti a livello di 3,6 milioni di ettolitri (i vini bianchi costituiscono il 63-65%, i vini rossi il restante 35-37%).

La Sicilia può vantare 24 vini a denominazione di origine protetta (DOP), di cui 1 DOCG e 23 DOC (secondo la nomenclatura italiana) e 7 a indicazioni geografiche protette (IGP/IGT). Tra questi il famoso vino Marsala DOC nella Sicilia occidentale, il Pantelleria DOC prodotto sull’isola di Pantelleria, l’Etna DOC nella Sicilia orientale e la Malvasia delle Lipari DOC prodotta nell’arcipelago delle Eolie, e il Cerasuolo di Vittoria DOCG e Noto DOC nella Sicilia sud-orientale.

Tra gli IGT, l’IGT Terre Siciliane è in assoluto il più importante, rappresentando quasi il 52% del totale dei vini siciliani confezionati.

La produzione totale di vino DOC, certificato nel 2023, è stata di 972.394 ettolitri, pari a circa il 35% della produzione regionale totale di vino e mosto.

La DOC più prodotta è la DOC Sicilia con 818.359 ettolitri certificati nel 2023, che rappresentano l’84% della produzione totale certificata DOP della regione siciliana.

Alcuni di questi vini li potrete assaggiare a Cracovia in occasione della Masterclass dal titolo “Sicilia enologica – vini e territori”, che si svolgerà il 7 novembre dalle 11 alle 12:30. La masterclass sarà condotta da Gianni Giardina, enologo italiano dell’Istituto IRVO, ambasciatore di Viticultura Eroica, e avrà l’obiettivo di presentare vini siciliani selezionati, mostrando la loro specificità e unicità. Durante l’evento sarà effettuata una degustazione di 10 vini e gli ospiti potranno porre domande e parlare direttamente con i partner italiani.

Potrete degustare l’olio d’oliva in numerose varietà (es. al pomodoro verde o alla mandorla amara) nell’ambito dell’OPEN DEGUSTAZIONE dal 6 all’8 novembre presso lo stand B21. Quattro le aziende presenti, in rappresentanza di produttori di olio d’oliva di altissima qualità: Società Agricola Radici, Rosario Tramontana, Lo Grasso Francesco, Azienda Agricola Fisicaro Sebastiana vi inviteranno a degustare oli unici direttamente sul vostro palato o… sul pane polacco!

La Sicilia ha prodotto in media dalle 30.000 alle 40.000 tonnellate di olive all’anno fino al 2023, quando, a causa delle alte temperature e della grave siccità, la produzione di olio d’oliva è scesa a 28.200 tonnellate. La minore disponibilità dei prodotti combinata con una maggiore qualità ha portato ad un aumento del prezzo medio e ad un cambiamento nella strategia del settore produttivo. La regione, infatti, è uno dei principali produttori di olio d’oliva certificato in Italia con 6 DOP (Val di Mazara, Valli Trapanesi, Monti Iblei, Valdemone, Valle del Belice, Colline Ennesi) e 1 IGP Sicilia. Un prodotto certificato DOP o IGP è garanzia per il consumatore del rispetto degli standard più elevati. È l’IRVO (Istituto Regionale del Vino e dell’Olio) della Sicilia che da oltre 10 anni si occupa del rilascio di certificazioni, promozione e formazione.

Le esportazioni di olio extra vergine di oliva siciliano DOP e IGP hanno superato un totale di 3.000 tonnellate nel 2023, di cui l’IGP rappresenta la quota maggiore. Stati Uniti, Giappone ed Europa – con la Germania capofila – ne apprezzano le caratteristiche organolettiche.

Da Altamura arriva anche un altro espositore, in visita per la prima volta alla fiera di Cracovia: Molini Loizzo (stand B22) è un’azienda produttrice di deliziose e varie tipologie di farine, perfette per pizza e altri prodotti salati e dolci da forno. Come ci ha raccontato Alessia Lombardi, in rappresentanza dell’azienda, attende con grande curiosità gli incontri con le aziende polacche.

Vino e olio d’oliva sono due pilastri della dieta mediterranea, conosciuti in tutto il mondo per le loro proprietà salutari. Nel 2010 l’UNESCO ha elevato la dieta di questa zona al rango di Patrimonio dell’Umanità. L’uomo esce dalla barbarie ed entra nella civiltà del Mediterraneo quando comincia a coltivare la vite e l’ulivo (Tucidide). Oggi sappiamo e apprezziamo che la vite e l’ulivo legano la CO2 molto meglio delle piante forestali e contribuiscono alla tutela dell’ambiente del nostro pianeta e, con i loro sapori, odori e colori, sono componenti della qualità della vita.

Non resta che provare!

 

Foto: aziende siciliane, espositori alla fiera di Cracovia

La Biennale di Venezia: dopo 53 anni torna la storica rivista

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foto: Zofia Wadowska

Giovedì 24 ottobre la Biblioteca dei Giardini della Biennale di Venezia ha ospitato la presentazione de “La Biennale di Venezia”, la prima rivista dal 1971, il trimestrale che accompagna una delle mostre più famose al mondo di arte, architettura, cinema, danza, musica, teatro e moda. In passato la rivista ha visto 68 edizioni, evolvendosi da una funzione di archivio a una funzione di formazione di opinioni, diventando un campo di discussione per i temi più contemporanei. In questo modo, le opere dei creatori della Biennale sono state archiviate, ma hanno anche avuto una seconda vita. Artisti e curatori hanno potuto osservare le mostre da una prospettiva nuova e più ampia, e i temi sono diventati più accessibili a un pubblico più vasto.

A inaugurare la presentazione è stata Deborah Rossi, la direttrice del servizio Archivi della Biennale, che ha raccontato la storia della rivista e ha presentato al pubblico il tema dell’ultimo numero, intitolato “Diluvi prossimi venturi”. L’edizione si concentra sul rapporto dell’uomo e della società con l’acqua, secondo un approccio interdisciplinare tipico per La Biennale. I testi sono scritti da scienziati, sociologi, artisti, architetti, e sono illustrati da fotografie d’archivio e contemporanee, immagini e diagrammi.

La conferenza è stata tenuta da un architetto marocchino il cui lavoro si basa in gran parte sul concetto di „designing for an arid future”, progettare per un futuro arido. Il suo approccio si è sviluppato attraverso le esperienze dell’infanzia trascorsa nella città marocchina di Fez, osservando le abitudini della sua famiglia e della società, il punto di svolta è stata invece l’esperienza di partecipare a un eco-safari. Uno dei suoi progetti più importanti è il masterplan per la rivitalizzazione del brutalista complesso termale di Siza Harazem, un progetto governativo degli anni Sessanta che, a causa di una notevole incuria e della mancanza di fondi, è caduto in rovina e i sistemi di circolazione dell’acqua, molto ben progettati, non funzionano più come un tempo. Il numero attuale della rivista include gli articoli su progetti di Aziza, insieme ad altri su scala minore e urbana, reportage e interviste con persone di diversi settori.

Il rilancio di questa rivista dimostra che la Biennale di Venezia svolge funzione importante nel campo della ricerca interdisciplinare, è un’istituzione pubblica interessata a temi sia locali che globali. La lettura dell’ultimo numero ci spinge a riflettere sullo stato del mondo, soprattutto sul rapporto con l’acqua, e su come le città polacche si trovino in questa situazione.