L’ottava d’oro di Ludovico Ariosto

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foto: fineartamerica.com

1516, 1521, 1532: non stiamo dando i numeri, ma le date di alcune tappe fondamentali nella storia della redazione di una delle opere più significative della letteratura italiana, quelle delle edizioni dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, che corrispondono ad un percorso radioso verso la realizzazione pratica dell’utopica lingua nazionale ispirata al toscano letterario trecentesco, che in quegli anni aveva teorizzato Pietro Bembo.

D’altronde l’obiettivo di Ariosto, intimamente connesso all’idea stessa del suo poema, era quello (tutto sommato anch’esso di chiara derivazione petrarchesca) di ricomporre l’assoluto caos delle vicende narrate (paradigma dell’infinita variabilità ed imponderabilità di ogni esistenza) in un’omogeneità formale, capace di dominare artisticamente quel che non si può invece quotidianamente gestire. In una parola, conseguire quell’armonia, che troverà la sua realizzazione concreta nella sua cosiddetta “ottava d’oro”.

Come possiamo intuire analizzando le varianti delle tre redazioni successive del Furioso e dei frammenti autografi di poco anteriori all’ultima, è evidente lo sforzo messo in campo da Ariosto per conformarsi ad un’ideale di perfezione linguistica (intesa come scelta accurata di vocaboli, armonia di rapporti e richiami verbali), congiungendo i paradigmi petrarcheschi con la tradizione classicistica, ma partendo dal toscano, screziato da emilianismi e latinismi, che costituiva quella sorta di koinè padana che contraddistingueva l’Orlando Innamorato del Boiardo, del quale il Furioso doveva essere la continuazione, nel gusto del pubblico. Un pubblico che stava diventando, però, altro ed indefinito, dopo l’affermarsi della stampa.

Ludovico Ariosto si mise così, nella caparbia opera di revisione del suo poema, alla testa della corrente bembiana, alla ricerca di un linguaggio omogeneo e filtrato, bloccando gli idiomatismi esterni che avevano caratterizzato l’epica quattrocentesca e prendendo spunto tanto dalle opere di Dante, di Petrarca, di Boccaccio ed anche del Poliziano, quanto dal latino “classico” che si stava uniformando anch’esso in quel tempo; per andare poi a condensare il tutto nella sua famosa ottava, schema metrico capace di vedere incastonati assieme termini eleganti ed espressioni familiari, in una mirabile alleanza di musica e sintassi, grazie allo straordinario equilibrio di parallelismi e contrapposizioni, capace di amalgamare aspetti formali, concetti ed immagini.

Puntando ad uno svolgimento aperto e polifonico, Ariosto, rendendo fluidi i passaggi fra versi od ottave, fra proposizioni o periodi, tanto quanto lo dovevano essere quelli fra le varie situazioni o i quadri figurativi, consegue così il suo sigillo in ambito espressivo nell’ottenimento della “armonia” del Furioso, cioè, usando le parole di Cesare Segre: “il contrassegno stilistico della conciliazione tra spirito contemplativo e senso del movimento e della variabilità del reale, tra sottilità raziocinante e dominio sovrano delle forze storiche”.