L’obesità e le malattie di Boccaccio

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Fonte: corrierecesenate.it

Certamente esagerando, in una lettera in latino al caro amico Mainardo Cavalcanti, Giovanni Boccaccio arrivò a scrivere che «semper vita fuit fere simillima morti» [“la mia vita è stata sempre estremamente simile alla morte”]; però è un dato inopinabile che l’immagine e la salute, non solo fisica, del grande letterato certaldese, col passar degli anni siano risultate progressivamente minate e compromesse, rispetto alla vigoria giovanile degli anni sereni trascorsi nella Napoli angioina. Soprattutto per un evidente particolare: l’aumento di peso, che divenne obesità.

Recenti studi, applicando un metodo di ricerca multiplanare, sono riusciti a giungere ad accurate indagini medico-filologiche sullo stato di salute del “paziente” Boccaccio, anche attraverso la ricostruzione del suo decorso clinico attraverso le epistole scambiate dal certaldese negli anni dal 1372 al 1374 con gli amici Francesco da Brossano e Mainardo Cavalcanti, dalle quali emerge come il poeta, afflitto da una grave obesità, stesse già da diversi anni attraversando un severo decadimento fisico, caratterizzato da un progressivo instaurarsi di un quadro di edema, verosimilmente causato da insufficienze epatica e cardiaca.

D’altronde, anche nel celebre affresco del palazzo dell’Arte dei Giudici e dei Notai, ancora visibile in via del Proconsolo a Firenze, la figura di Boccaccio appare per nulla in salute: è volutamente, infatti, rimarcato il suo profondo grado di emaciazione. Ecco perché Francesco Galassi, stimatissimo paleopatologo romagnolo dell’Università di Zurigo, presentando gli esiti del lavoro di un team interdisciplinare di medici, scienziati, storici, filologi e sociologi, alla Biblioteca Malatestiana di Cesena si è confrontato nel 2017 con i più autorevoli esperti di bioarcheologia e paleopatologia, proprio per invitare ad avviare in modo sistematico lo studio delle cause e degli sviluppi delle malattie e delle condizioni di vita dell’antichità, dando come titolo all’incontro: L’ultima novella di Boccaccio. L’enigma della morte, un viaggio tra poesia e medicina.

Sappiamo che le cose per Giovanni Boccaccio avevano cominciato, anche e soprattutto a livello psicologico, a mettersi già in modo problematico sin dal 1362, quando il certaldese venne coinvolto in una profonda crisi religiosa, che parrebbe però collegata anche ad una condizione di salute già non più ottimale. Boccaccio ricevette in quell’anno la visita di uno strano monaco, che, dicendo di esser stato a lui inviato dall’appena scomparso in odore di santità certosino Pietro Petroni, gli si presentò con il nome di Gioacchino Ciani e lo avvertiva di una morte imminente, invitandolo a pentirsi e ad abbandonare poesie e scritti profani. Terrorizzato ed inquietato dalla funerea profezia, Boccaccio, che già avvertiva una salute non salda, si dice che avesse deciso così precipitosamente di bruciare i suoi libri e di dedicare da quel momento in poi la sua vita all’ascesi ed ai valori religiosi: fortunatamente, però, intervenne il suo amico e maestro Francesco Petrarca, che lo dissuase dall’insana volontà di distruggere le sue opere, dimostrandogli invece – come sperimentata su se stesso – l’assoluta compatibilità tra fede e poesia, fra letteratura e religione, convincendolo pure del grande valore della sua produzione letteraria.

Il certaldese riprese quindi la sua attività cercando di coniugare, come detto dall’amico Petrarca, fede e poesia, dedicandosi in primis al completamento del Trattatelo in laude di Dante; ma nel 1372 Boccaccio, la cui situazione economica non è di certo florida, è sempre più afflitto dall’obesità e da una fastidiosa forma di idropisia che gli rende difficoltosi i movimenti; è anche tormentato dalla scabbia e da attacchi di febbre.

Nel 1373 dedica la versione definitiva del De casibus a Mainardo Cavalcanti, prosegue la revisione delle Genealogie e riceve dalla città di Firenze l’incarico, che lo gratificherà moltissimo, di fare letture pubbliche della Commedia dantesca. Il 23 ottobre 1373, termina così il suo appassionato lavoro di studio delle opere di Dante e, nella chiesa di Santo Stefano di Badia, inizia la tanto attesa e molto apprezzata lettura pubblica della Divina Commedia, che è però costretto a sospendere dopo pochi mesi a causa del suo compromesso stato fisico: le condizioni di salute del poeta peggiorano, l’obesità gli provoca malesseri e disturbi sempre maggiori, mentre delle febbri altissime lo colpiscono periodicamente. Alla salute precaria si aggiunge il problema della crescente povertà, che si placa solo parzialmente coi vantaggi offerti dagli ordini minori, presi già nel 1360, seguendo l’esempio del Petrarca.

Le serie difficoltà economiche e di salute lo convincono a ritornare a Certaldo, dove viene però a conoscenza della scomparsa di Petrarca. Il triste evento peserà parecchio sulla volontà e sull’umore di Boccaccio, ma gli ispirerà anche l’ultimo sonetto delle sue rime senili, composto nel 1374 e dedicato alla morte del maestro e dell’amico Francesco. Giovanni, nonostante fisico e morale fossero ormai provatissimi, continua comunque a lavorare alle Genealogie deorum gentilium, l’enciclopedica opera in lingua latina in quindici volumi, con la quale pensava di assicurarsi la fama futura, correggendola e rivedendola fino al 21 dicembre del 1375, giorno in cui si spegnerà nella sua Certaldo.

A più di sei secoli di distanza, Francesco Galassi sottolinea, studiando in modo filologico il quadro clinico di Boccaccio che: «L’accuratezza delle [sue] descrizioni, che si tratti di una novella del Decameron o di corrispondenza privata, è strabiliante: a maggior ragione, se si considera che Boccaccio nutriva scarsa fiducia nei riguardi dei medici del tempo».

In effetti già in precedenza il “caso Boccaccio” era stato oggetto di approfondita e curiosa analisi perché nel Decameron compare quella che forse è la prima descrizione dettagliata nella storia dell’umanità di una morte cardiaca improvvisa. Va anche detto quanto Giovanni Boccaccio fosse scettico nei confronti della medicina del tempo così come lo era Francesco Petrarca, il quale addirittura compose le Invective contra medium, uno scritto polemico contro un anonimo medico della curia papale, con cui non si limitava solamente ad attaccare le pretese dei medici contemporanei di equiparare la loro professione a un’arte liberale, ma affermava anche la preminenza della poesia su tutte le altre attività dello spirito.