Liliana Cavani, una regista disubbidiente

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Liliana Cavani / fot. Graziano Arici

Nella vasta cinematografia italiana dove sono soprattutto gli uomini che definiscono i contorni dell’identità del Bel Paese con le sue città, la sua storia, la mafi a… c’è una donna che nella cinematografia varca continuamente i limiti, intrecciando perfino elementi del bondage col fascismo. Ecco Liliana Cavani.

Una regista disubbidiente, nata a Carpi, in provincia di Modena, negli anni Trenta del Novecento quando dominava il fascismo. Suo padre, architetto di Mantova, che proveniva da una famiglia conservatrice borghese-terriera, era raramente a casa. Mentre la madre, appartenente alla classe operaia che combatteva il movimento fascista, appassionata di cinema, ogni domenica anziché in chiesa portava sua figlia, futura regista, al cinema a vedere i film d’amore che adorava. Tutte quelle storie semplici che non assomigliavano alla realtà ma che allietavano l’esistenza grazie al sorriso del giovane Vittorio De Sica di cui si poteva essere segretamente innamorate. Nel corso del tempo il cinema è diventato una sorta di tutore della piccola Liliana che veniva portata al cinema quando i genitori non potevano starle dietro. Abitavano in Corso Vittorio Emanuele vicino al parco in cui c’era l’ospedale. Dentro l’ospedale c’era un obitorio che suscitava curiosità. È piuttosto naturale che un bambino si interessi di cose proibite e cerchi di entrare nei luoghi proibiti. Liliana aveva sei anni quando decise di scoprire il mistero di questo luogo, dietro le mura di casa, dove la gente entrava sempre in lacrime. Così una volta decise di seguire una persona e così vide i cadaveri, o meglio, i corpi coperti con le lenzuola da cui sporgevano i piedi nudi. I vecchi piedi rugosi. Un’altra volta andò al funerale di una persona sconosciuta e aprirono la bara prima di seppellirla. Di nuovo vide un cadavere. Non capiva perché il corpo morto non riusciva a muoversi. Una delle più importanti esperienze in questa bizzarra curiosità verso la morte fu la morte della madre di un suo amico. La donna si chiamava Igea. Prima del funerale il suo corpo era esposto davanti alla casa per permettere ai familiari e conoscenti di darle l’ultimo saluto. Come anni dopo ha dichiarato la stessa regista quello che la incuriosiva era vedere il corpo di una persona vestita bene, sdraiata immobile, che nessuno cerca di svegliare. In quei tempi l’abisso intergenerazionale era maggiore di quello attuale. I bambini non facevano domande e anche quando le facevano, raramente ricevevano una risposta sul mondo degli adulti.

Liliana Cavani / fot. Graziano Arici

La casa di famiglia di Liliana era diversa dalle case italiane dell’epoca, tradizionali e conservatrici, sature di regole severe e dei principi del cattolicesimo. A casa sua si crescevano i figli con pazienza e comprensione. La regista fino ad oggi ricorda che probabilmente era l’unica ragazza nel cortile che non ha subito violenza domestica, neanche una minima sculacciata. Tutto ciò lo deve ai nonni che l’hanno cresciuta e che erano tolleranti, con valori profondi, desiderosi di creare una società giusta e libera. A casa loro non c’era odio ma la percezione che l’istruzione consista in libero arbitrio e nel rispetto reciproco. Come diceva Cavani: “anche i cattolici della nostra regione erano gentiluomini, più civili della media”. Se i nonni le hanno dato il meglio, di suo padre invece non serba un buon ricordo, fino ad oggi lo ricorda assente nella sua vita, non aveva nessun legame con lui, per questo prese il cognome della madre con cui invece si identificava. La stessa libertà che aveva a casa, l’aveva anche a scuola. La sua insegnante le permetteva di fare tutto ciò che voleva. Liliana era una brava studentessa e imparava le cose velocemente perciò non c’era bisogno di controllarla. Però quando la sua insegnante si ammalò fu sostituita da un’altra che non tollerava tale regime di libertà. Questo fu agli inizi degli anni Quaranta. L’Europa era travolta dalla guerra e la piccola Liliana per la prima volta fu costretta ad affrontare punizioni e la violenza di uno schiaffo dalla sua insegnante.

Anche se voleva diventare archeologa, alla fine si laureò in letteratura e filologia presso l’Università di Bologna nel 1960 scrivendo la tesi su Marsilio Pio, un poeta nobile del XV secolo. Perse l’interesse di indagare i tempi antichi quando per caso scoprì il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, fondato da Benito Mussolini prima della Seconda Guerra Mondiale. Qui Liliana inizia a studiare il documentario e si laurea con i cortometraggi “Incontro notturno”, incentrato sull’amicizia tra un uomo bianco e un senegalese, e “L’evento”, che parlava di un gruppo dei turisti chi uccideva per divertimento. Qualche mese dopo l’inizio degli studi vinse il concorso che le ha poi consentito di realizzare una serie di documentari per la televisione Rai sulla storia del Terzo Reich, sull’epoca di Stalin e sulle donne del periodo della Resistenza. Questo è stato il suo biglietto da visita nel mondo del cinema che era dominato nella maggior parte dagli uomini.

Per comprendere profondamente questa ragazzina nata a Carpi bisogna guardare i suoi film. Non scontati, espressivi, che mettono i protagonisti alla prova estrema. Attenzione merita ad esempio “Francesco D’Assisi” del 1966, il debutto alla regia, lungometraggio prodotto per la televisione e trasmesso in due parti. Il film è ispirato allo stile di Rossellini e alle atmosfere dei film di Pasolini. Un film realizzato nei tempi caldi dell’agitazione politica degli anni Sessanta che doveva diventare il manifesto di un nuovo cattolicesimo. Fu un debutto importante, molto commentato nell’ambiente cinematografico e tra i critici. Alcuni erano entusiasti e altri lo definivano blasfemo e offensivo per la fede del popolo italiano. Un altro film notevole “I cannibali”, del 1970, è liberamente ispirato all’Antigone di Sofocle riambientando la vicenda in un imprecisato futuro distopico. Il film racconta la storia di una donna che deve affrontare le autorità che impediscono di seppellire i ribelli uccisi dalla polizia.

Non si può poi dimenticare il leggendario “Il portiere di notte” del 1974. Una tipologia di storia d’amore a cui non erano abituati gli spettatori degli anni Sessanta e Settanta. È la storia di Max (Dirk Bogarde) che incontra Lucia (Charlotte Rampling) in un campo di concentramento. Lui è un comandante delle SS, lei invece una prigioniera adolescente, ha i capelli corti e il corpo emaciato dalla mancanza di cibo. Tra i due nasce un rapporto perverso. In cambio di sesso, lui le porta regali strani come una scatola con la testa di un altro detenuto. Passano dodici anni dalla fine della guerra e si incontrano di nuovo in un albergo a Vienna, dove lui fa il portiere e lei è un’ospite. Presto emergono i ricordi passati. Ricomincia il rapporto erotico sadomaso e Max cerca di impedire ai suoi amici nazisti di uccidere Lucia.

Questo film ha segnato profondamente la regista. Cavani ha dovuto a lungo difendersi da chi tentava di distruggere il suo lavoro dichiarando che era un film porno. E sebbene in Europa venisse trattata con rispetto, dall’altra parte dell’oceano fu sommersa da un’ondata di critiche. Pauline Kael del New Yorker definì il film “offensivo dal punto di vista umano ed estetico”. Il distributore dagli Stati Uniti, Joseph E. Levine, sfruttò il tema del film per convincere la stampa a scrivere articoli ostili per scatenare la curiosità degli spettatori che infatti correvano a comprare i biglietti. In questa situazione la Cavani ricevette tante offerte di basso profi lo tra cui quella di produttori di film per adulti che volevano convincerla a fare un naziporno. Lei rifiutò tutte le proposte. Comunque poi per decenni il film è stato tolto dalla distribuzione e solo dopo anni è uscito in BluRay. A prendere la parola nella discussione sul fi lm c’erano anche i personaggi famosi che cercavano di decifrare le intenzioni della Cavani. Il sopravvissuto all’Olocausto Primo Levi ha defi nito questo film “splendido e falso” ed ha aggiunto che questo film “non ha niente a che vedere con i campi di concentramento”. Invece lo scienziato Jorg Heiser ha scritto nel 2010 che Cavani trasforma “la realtà del campo di concentramento in “parco giochi per nazisti”. Una cosa è certa però, non esiste un’altra Liliana Cavani, così coraggiosa e ribelle che non si piega al sistema e al conformismo.

traduzione it: Karolina Kaliszczyk