Nell’Ottocento l’iconografia e l’immaginario polacco erano dominati dalla figura della Matka Polka, la madre polacca che si prendeva cura dei figli, futuri soldati, mentre i padri erano altrove impegnati a combattere. All’epoca questo cliché era una forma di apprezzamento, ma ovviamente era il portato di una società che privava la donna della possibilità di giocare un ruolo attivo nella sfera pubblica, confinata com’era a quello di madre e di moglie. La scrittrice Maria Dąbrowska riteneva questa divisione stereotipata dei ruoli un vero e proprio dramma sociale: la donna era simbolo di una vita da persona sistemata e appagata; l’uomo era marito, ma anche girovago a caccia di nuovi sentieri. I due si incontravano provenendo quasi da mondi separati. Tuttavia, si chiedeva Dąbrowska, possibile che “non esist[a] un mondo di donne guerriere e di donne vagabonde?” La lotta per l’indipendenza della Polonia offrì alle donne polacche la possibilità di rispondere positivamente a questa domanda retorica.
La loro partecipazione alla causa patriottica assunse varie forme: dall’organizzazione di sistemi di istruzione clandestina, alla diplomazia culturale, alla cospirazione. Tuttavia, ciò che è più importante è che il loro protagonismo nella lotta per l’indipendenza fu foriero della nascita di un movimento di emancipazione femminile. A coloro che, in un precursore ottocentesco dell’odierno benaltrismo, affermavano che l’uguaglianza era questione triviale rispetto ai veri problemi della nazione, la pittrice e femminista Maria Dulębianka rispondeva: “Forse la donna è separata dalla sua nazione?” Per evitare facili accuse le prime organizzazioni femministe enfatizzavano comunque il loro patriottismo e il loro coinvolgimento nella causa indipendentista. Alcune di loro erano sinceramente convinte che l’indipendenza fosse condicio sine qua non della loro emancipazione, che sarebbe stata naturale conseguenza della rinascita di una Polonia libera.
Erano spesso le donne a offrire un aiuto ai prigionieri e ai deportati, a partecipare ad attività di contrabbando e ad essere protagoniste di azioni di vero e proprio terrorismo. L’attentato fallito nel 1906 contro il Generale Georgij Skalon, allora governatore russo a Varsavia, fu attuato quasi esclusivamente da donne: Wanda Krahelska, Zofia Owczarkówna e Albertyna Helbertówna. Lontani insomma erano i tempi in cui la partecipazione femminile alla lotta per l’indipendenza passava soltanto per attività di beneficenza, il contrabbando di letteratura proibita o la cura dei feriti.
Ci sono anche donne che imbracciarono i fucili. Di alcune conosciamo il nome e sono celebrate ancora oggi, da Emilia Plater, icona dell’Insurrezione di novembre del 1830, ad Anna Henryka Pustowojtówna, simbolo di quella del gennaio 1863. La loro trasformazione in figure leggendarie è stata rafforzata dalla letteratura. Plater, per esempio, è commemorata ne La morte del colonnello. Molte altre hanno nomi che sono caduti nell’oblio. Quando scoppiò la Grande Guerra, il maresciallo Józef Piłsudski decise che le donne non avrebbero partecipato ai combattimenti, ma piuttosto ad attività collaterali quali lo spionaggio. Ci sono però testimonianze di donne che si spacciarono per uomini per poter combattere, come il soldato di fanteria Leszek Pomianowski, il cui vero nome era Zofia Plewińska.
Il coinvolgimento diretto e indiretto nella guerra divenne un utile carta da giocare nella successiva partita del suffragio femminile, che le donne infatti conquistarono nel 1918.