Claudia Durastanti è scrittrice e traduttrice nata a Brooklyn nel 1984. A sei anni si è trasferita con la madre e il fratello a Gallicchio in Basilicata. È membro del consiglio organizzativo della Fiera Internazionale di Torino, ed è una delle fondatrici del Festival della Letteratura Italiana di Londra. Ha debuttato nel 2010 con il romanzo “Un giorno verrò a lanciare i sassi alla tua finestra”, che ha vinto il Premio Mondello Giovani. Il suo romanzo più acclamato “La straniera” (2010) è arrivato alla finale del Premio Strega; è stato premiato con il Premio Strega Off e con il Premio Luigi Russo, inoltre è arrivato tra i finalisti dei premi Alassio Centolibri, Viareggio e Stresa. Il libro è stato tradotto in oltre venti lingue ed è previsto un adattamento in serie TV. In Polonia è uscito per la casa editrice Czarne con la traduzione di Tomasz Kwiecień.
Leggendo “La straniera” si sente che è una storia che avevi bisogno di raccontare, come se volessi liberarti dei ricordi. Però nel libro dici che l’autobiografia è un genere bastardo che è nelle mani di persone che hanno bisogno di salvezza, come donne, migranti, disabili. Tu volevi essere salvata o volevi salvarti?
Quando ho scritto questo libro mi sono resa conto che ci ho pensato tutta la vita. Ho sentito che c’era dentro di me un desiderio di lasciare andare alcune cose ma per scriverle dovevo prima riavvicinarle. Natalia Ginsburg diceva che si è avvicinata alla scrittura autobiografica a passi da lupo, è un’immagine molto interessante perché sembra una cosa che si fa in maniera un po’ guardinga. Io credo d’essere stata molto influenzata dall’idea che la letteratura salva la vita e che io mi volevo salvare e volevo salvare anche i miei genitori. Un’operazione che mi auguro sia successa non solo perché racconto fatti traumatici familiari, ma lo sia per la forma del libro e anche la lingua con cui l’ho scritto, lo stile, la poesia, la visione elementi che vanno oltre l’esperienza biografica, altrimenti non so che senso avrebbe pubblicare queste storie.
Nel libro torna a vari livelli il concetto dell’essere straniero. All’inizio abbiamo l’estraneità territoriale. Sentivi la nostalgia dei posti da cui andavi via o il fatto di abitare in luoghi diversi ti ha permesso di sentirti più radicata in varie culture?
È interessante questa domanda perché secondo me il viaggio interno nel libro è quasi un rovesciamento. Per mia madre la condizione di essere straniera era una condizione di libertà, una forma di diversità positiva dagli altri. Invece per me che ero bambina era l’esatto opposto, era una differenza a polo negativo, un segno di esclusione e di marginalizzazione. Credo d’aver scritto questo libro proprio per invertire la corrente da negativa a positiva e anche un po’ per sfidare quel concetto di mancanza. Quando sei straniero tendono un po’ a rinforzare il messaggio che casa non è da nessuna parte, che questa libertà nello spazio è una forma di malinconia. Io invece sin da bambina sono stata estremamente nostalgica, quindi in qualche modo ho fatto di tutto per difendere gli Stati Uniti, Brooklyn nello specifico, che poi abbiamo lasciato per trasferirci in Basilicata. Secondo me questa cosa tra città e campagna è importante. Se mia mamma si fosse trasferita a Roma credo che avrei sentito di meno l’essere proprio strattonata tra due mondi molto diversi.
Poi mentre scrivevo mi sono resa conto che io avevo tante radici. Quindi per me l’identità era quasi un problema selettivo. E sono arrivata alla conclusione che siamo fatti di tante appartenenze e che ci sono dei momenti in cui ne raccontiamo una o due, però le altre non necessariamente non esistono più, rimangono lì in attesa di essere riesplorate in un’altra occasione. Quando mi sono trasferita in Inghilterra anch’io sono diventata una migrante, come mia madre e mia nonna. E credo che sia proprio questa concezione proliferante, quasi infestante, di essere straniera contemporaneamente in più posti che ha fatto sì che io riuscissi a uscire da questa rappresentazione di straniera come mancanza e trasformarla in presenza.
Poi abbiamo l’estraneità a livello familiare ovvero la sordità dei tuoi genitori vista dagli altri e da te che ci sei cresciuta.
Dopo l’uscita del libro, mi sono chiesta: come sarebbe stata la scoperta della sordità dei miei genitori in una società che non emarginava la disabilità? La mia sofferenza nell’infanzia veniva dal limite fisico di mia madre che non mi poteva sentire o invece da un mondo esterno, scuola, parenti, istituzioni, società in senso generale, politica, che mi facevano vivere quella sordità come un peso? Ho quindi cercato di pensare al momento in cui ho realizzato che i miei genitori sono sordi e sono sicura che me l’ha detto qualcuno, perché nella fase di apprendimento della lingua noi chiaramente non ce ne rendiamo conto. E quindi credo d’averlo capito nel momento in cui qualcuno è entrato e mi ha detto guarda che tua mamma è diversa da te. E allora abbiamo iniziato ad abitare veramente in due mondi diversi che forse non era necessario. Poi la mia sofferenza è stata determinata da alcune stranezze di mia madre, dal suo carattere eclettico, quello di un’artista con problemi di salute mentale. Solo scrivendo il libro ho avuto la possibilità di dare a queste differenze un significato mio che fosse un po’ svincolato da tutto il condizionamento che arriva quando tu esci di casa e ti confronti con la società. Secondo me non è un caso che ho iniziato a scrivere “La straniera” quando avevo 34 anni, che era l’età di mia mamma quando dagli Stati Uniti si è trasferita in Italia. Quando siamo vicini a persone che hanno una disabilità, quasi sempre ci chiediamo cosa ha fatto a noi quella disabilità. Io invece mi domandavo che cosa la disabilità aveva determinato nei miei genitori, capire se volevano ribellarsi, se il loro desiderio di libertà e di autonomia venisse represso costantemente. Durante una delle prime interviste che ho fatto quando è uscito il libro, a Farenheit di Radio 3, Loredana Lipperini mi ha detto che nonostante la sordità dei miei genitori per lei loro sono anche persone che erano ventenni negli anni Settanta. E io ero quasi commossa perché era bello il fatto che una persona riuscisse a iscrivere i miei genitori in una storia generazionale collettiva, perché era un po’ come se fossero stati sempre esclusi. Ho scritto il libro perché mi mancavano nelle storie che leggevo.
Anche il linguaggio che usavate dentro il vostro nucleo familiare lo possiamo definire come estraneo per gli altri?
Qui è interessante la questione della migrazione. Quando stavo traducendo il libro “Chinatown interiore” di Charles Yu, che è ambientato in una Chinatown americana immaginaria e parla della migrazione cinese, ad un certo punto ci sono due personaggi e uno parla lentamente usando una vecchia forma di cinese. E l’altro gli dice: “Sono straniero, non sono sordo”. E io mi sono resa conto che spesso si crea un equivoco e le persone sorde vengono trattate come se fossero straniere, invece le persone straniere, migranti, vengono trattate come se fossero sorde. E nella mia famiglia questo equivoco raggiungeva dei livelli stratosferici perché ogni volta che mia madre rivedeva i suoi fratelli che erano andati in America, loro le parlavano come se non fosse sorda. E io un po’ mi arrabbiavo, loro invece mi dicevano che ormai viviamo in paesi diversi e parliamo una lingua immaginaria.
E quella cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che ognuno di noi ha un “lessico familiare”, nel mio caso è particolarmente stratificato perché appunto c’è anche una sordità di mezzo. Però io sono straniera pure nel mondo dei sordi perché non parlo la lingua dei segni. Parlavo l’italiano dialettale dei miei nonni, l’inglese provvisorio dei miei familiari che non avevano studiato quindi era una dimensione linguistica molto particolare, una polifonia legata all’assenza di regole e alla tendenza a inventare.
Nel libro scrivi che “il linguaggio è una tecnologia e le parole sono come fiamme che ci avvicinano al non detto. E quando non ci sono parole, quello che permette la comunicazione sono i gesti.” Secondo te sono più importanti le parole o i gesti, o forse entrambi?
Questa è una domanda molto bella. Sono stata una bambina molto verbosa e sono una scrittrice molto verbosa. Anche nelle mie relazioni affettuose, sentimentali, sono stata orientata al logos e al definire, ovvero l’amore, il sentimento, l’amicizia esistono nella misura in cui io lo comunico a parole. Ma dopo aver scritto “La Straniera”, è come se mi fossi riavvicinata un po’ di più a questa componente nascosta o più tattile e non verbale. Quindi anche se non conosco la lingua dei segni è come se avessi recuperato anche un uso diverso del silenzio, ma non un silenzio come assenza, ma un silenzio come presenza. Quindi oggi ti direi che sono una persona che articola le forme di espressione e chissà se diventerà un’influenza anche nella scrittura, perché mi piacerebbe mostrare il silenzio anche visivamente sulla pagina.
Stranieri siamo anche nelle nostre relazioni amorose?
Io sin da bambina avevo questa idea romantica, presa dalle serie televisive americane, che probabilmente la relazione sarebbe stata una sorta di viaggio temporale con qualcuno che non era destinato a finire. Invece scrivo il libro e mi rendo conto che paradossalmente la prima cosa che tu dici alla persona che ami è anche l’ultima cosa che le dici quando non ci stai più insieme. Cioè che è straniera all’inizio perché ancora non la conosci, poi si crea una fase di lunga somiglianza e poi c’è la nostalgia della perdita della simbiosis, che è quella che racconto nel libro, in cui ritorna una forma di estraneità e di incomprensione. E, a proposito del linguaggio, per me l’amore con qualcuno è soprattutto un modo di parlare, un lessico amoroso che capiscono solo le due persone che lo usano. E quando tornano a parlare come due persone estranee, anche se sono nella stessa casa, sono in continenti diversi. Per me è stato interessante vedere l’ambivalenza del concetto di estraneità proprio nell’amore.
Fai tanti riferimenti alla letteratura polacca ed il colore rosso della copertina dell’edizione italiana è legato al film di Kieślowski.
È vero, cito l’amicizia di Malinowski e Witkiewicz che sono un po’ un fantasma della voce narrante rispetto alla madre. Parlo del romanzo omonimo di Maria Kuncewiczowa. Il mio viaggio a Danzica. La storia della copertina invece è interessante perché io avevo sempre percepito che il colore doveva essere blu – e non rosso come mi ha consigliato mia madre – ritenevo di aver scritto un romanzo-costellazione ovvero quello che dice la Tokarczuk nel libro “I vagabondi”, lettura per me molto importante. Ero andata a sentirla alla British Library e lei aveva usato questa espressione. Mi sono detta gliela rubo perché veramente sento che questo è un po’ il metodo che ho usato. La cito quando dico “una storia familiare è più simile a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Per queste ragioni la copertina rossa mi sembrava una imposizione ed invece aveva senso.