“La Costituzione del 3 maggio è probabilmente il bene pubblico più puro che sia mai stato dato all’umanità” – Edmund Burke
Nella storia della legislazione polacca, scriveva Stanisław Smolka, “non esiste un altro atto insignificante come la Costituzione di Maggio. La sua durata fu come un soffio: un anno solo. Essa fu soffocata nella culla. Ciò nonostante il suo ricordo incancellabile rimane molto caro; è sempre vivo e presente nell’immaginario nazionale, nonché nei cuori e nella coscienza dei polacchi.” Sono parole importanti, eppure la conoscenza delle esperienze costituzionali polacche, da parte della dottrina giuridica europea, è piuttosto scarsa. Questo è stato, ed è ancora oggi, un grande errore; la Polonia infatti è ricca di tappe importanti nel panorama giuridico, oltre che storico.
Basti ricordare che nel 1505, durante il regno degli Jagelloni, venne emanato l’atto del “Nihil Novi”, che viene considerato come “il documento che ha dato inizio al parlamentarismo polacco, e che stabiliva un principio fondamentale nell’affermazione seppur primordiale del costituzionalismo”. Secondo tale norma, una legge non poteva essere approvata dal Re senza il consenso di Camera e Senato. Nel 1574 si afferma inoltre un altro passo importante con la sottoscrizione degli “Articuli Henriciani”, dal nome di Henryk Walezy, neoproclamato Re della Rzeczpospolita Obojga Narodów, Repubblica polacco-lituana; questi articoli, nel codificare i nuovi principi di governo, stabilirono espressamente che il re non poteva più ricevere la corona su base ereditaria, ma solo in seguito a libere elezioni viritim, e si affermò altresì che fosse suo obbligo convocare il Sejm (Parlamento) almeno ogni due anni per 6 settimane. Insomma, passaggi non da poco, se li osserviamo con gli occhi del costituzionalista.
Oltre a detenere il primato temporale ponendosi come prima Costituzione scritta in Europa, nonché seconda al mondo dopo quella degli Stati Uniti del 1788, di cui “assorbe parte dei suoi principi liberali”, la Costituzione polacca del 1791 si afferma in modo del tutto particolare; potremmo dire, usando un termine latino, sui generis rispetto alle esperienze giuridiche che si susseguiranno nel resto d’Europa: non si va a delineare come elemento di rottura (a differenza di quella francese del settembre 1791), ma si afferma in modo pacifico, pur collocandosi tra gli eventi più importanti della settecentesca fase di trasformazione dello Stato (da Ancién Regime a Stato moderno); essa è il frutto non di una guerra civile, ma di una evoluzione del sistema politico; non di una frattura rivoluzionaria, ma di un progresso culturale. La Konstytucja 3-go maja racchiudeva sia contenuti tradizionali che elementi di novità e di riforma: il passaggio dall’Unione alla monarchia costituzionale si guadagnò il nome, appunto, di “rivoluzione pacifica”; il francese Louis Bonafous sottolineava che la costituzione polacca era stata creata “senza i soldati, senza le armi, senza nessuna violenza.” Simili considerazioni esprimeva Antoine-Joseph Gorsas, che scrisse: “La Polonia è libera. E senza spargimento di sangue, ha dato vita alla più bella rivoluzione.” Anche il filosofo e scrittore britannico di origine irlandese Edmund Burke, criticando certe prassi del movimento rivoluzionario francese, annotò: “Se ci sono dei miracoli in questo secolo, uno è accaduto in Polonia.”
La particolarità di questo percorso è da intravedere anzitutto nel ceto nobiliare polacco, principale attore politico e nazionale. La peculiarità di questo ceto è infatti insolita rispetto al resto d’Europa; una studiosa come Beata Maria Pałka, a riguardo, scrive che “la nobiltà rappresentava il 10% dei polacchi, contro, ad esempio, l’1% di quella francese”. La loro posizione sociale infatti era particolarmente marcata, tanto che venne definita da più autori come “democrazia nobiliare”, e le sue ideologie di aurea libertatis influirono in maniera decisiva nel processo costituzionale, caratterizzato in primo luogo dalla tutela delle libertà acquisite dalla nobiltà; si potrebbe parafrasare, richiamando l’antico celebre motto del Re francese Luigi XIV “Lo Stato sono io” (L’Etat c’est moi), che nell’esperienza polacca la nobiltà avrebbe potuto dichiarare “Lo Stato siamo noi”. Ma la nobiltà non era l’unica a spingere verso un processo riformatore; è infatti con l’ascesa al trono polacco-lituano del re illuminista Stanislao II Augusto Poniatowski che si apre un nuovo capitolo della storia, e soprattutto una fase cruciale nella ricerca dell’identità dello Stato polacco; anni che sono denominati dalla storiografia come “il periodo delle riforme”, che andarono a interrompere il cosiddetto periodo di ristagno intellettuale denominato “notte sassone”.
I due grandi ideologi che contribuirono alla stesura furono i sacerdoti Stanisław Staszic e Hugo Kołłątaj, l’uno monarchico e l’altro repubblicano; essi andarono a teorizzare la respublica polacca non più come una mera difesa del liberum veto e dei privilegi nobiliari, ma come la delineazione di un vero governo, basato su una reale limitazione dei poteri e su una prima tutela dei diritti civili; un progresso culturale che era frutto della storia, origine di processi e di riforme antecedenti, di risvolti culturali che contribuirono a creare una stagione riformatrice di cui la Costituzione di maggio è solo l’ultimo e più alto prodotto, e che si fa strada dal 17 novembre 1789, quando il Sejm nominò una deputazione allo scopo di preparare una bozza di Costituzione.
Il ruolo principale all’interno di questo nuovo organo fu ricoperto da Ignacy Potocki. Tale progetto venne discusso con la fondamentale mediazione di un italiano, Scipione Piattoli, personaggio chiave nella mediazione politica tra le due parti, che fu definito da un eminente storico quale Aleksander Gieysztor, come “un vero e proprio tramite tra le posizioni monarchiche e quelle repubblicane, collaborando con entrambe nella stesura del progetto costituzionale”. Intorno alla Carta si formò un vero e proprio pactum di salda fede patriottica, all’insegna del motto “Il re con il popolo, il popolo con il Re”. D’altronde, già nelle considerazioni sul governo di Polonia di Rousseau del 1771, emerse un concetto romantico più che illuministico; in quest’ottica la nazione appare come un’entità storico-culturale, prima ancora che un aggregato tra classi differenti, e fu anche questo che diede vita ad una lunga fede quasi “religiosa” al testo costituzionale. Anche per ciò la Costituzione del 1791 ha svolto, pure nella storia contemporanea, un ”ruolo fondamentale nella coscienza dell’indipendenza della Polonia, che cancellata per 123 anni dalle mappe d’Europa, rimaneva salda e viva nella mente e nel cuore dei polacchi”; ne è dimostrazione il fatto che, dopo aver riacquistato l’indipendenza perduta, la Costituzione del 1921 (nel suo preambolo) fa esplicito riferimento alla Costituzione di Maggio.
Essa però venne applicata, come sappiamo, per pochissimo tempo. Nel 1792, appena 1 anno dopo, il re fu costretto ad aderire alla Konfederacja targowicka, di magnati polacchi sotto l’egida della Russia di Caterina II. Russia e Prussia imposero il ritorno delle antiche leggi e consuetudini, per poi procedere ad ulteriori spartizioni. Ma l’importanza del costituzionalismo polacco, che ha segnato l’affermazione della Nazione, resta ancora oggi nella storia europea. Emblematiche, a riguardo, le parole del nostro Giovannino Guareschi: “la voce della Polonia è un dolore dignitoso di gente usa da secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre ma che non muore mai. (…) Ogni cosa in Polonia, ogni gesto, ogni accento, parla della passione polacca.” Soprattutto la Costituzione.