In questi giorni (nel 2018) esce nelle sale cinematografiche polacche il nuovo film del grande regista Krzysztof Zanussi, icona del cinema polacco, dal titolo “Etere“, pellicola che reinterpreta il mito di “Faust”. La trama si svolge sul territorio della monarchia austro-ungarica e dell’impero russo e racconta la storia di un medico militare che fa esperimenti scientifici per arrivare a dominare il mondo. La prima del film è stata durante il Festival del cinema polacco a Gdynia.
Abbiamo incontrato Zanussi, che lo scorso giugno (nel 2017) ha ricevuto il Premio Gazzetta Italia nella categoria cinema, nel suo storico ufficio in via Puławska a Varsavia dove per anni ha lavorato fianco a fianco con Krzysztof Kieślowski.
Ha dichiarato spesso che l’aspetto visivo ha assunto troppa importanza nel cinema, che cos’è quindi che le interessa di più nel mestiere di regista?
Per eccesso di visualità intendo soprattutto dei video commerciali: videoclip, pubblicità, le tv musicali. Sono discipline asemantiche che non trasmettono nessun contenuto e che puntano a stupire attraverso visuali controverse e un gioco continuo di colori e ritmi. Ma questo non è il sale del cinema. Il film nasce dal teatro e per me è soprattutto arte della parola. Nei film prima di tutto parliamo, la logica della narrazione, che discende dal teatro, non può basarsi solo sull’immagine. Quindi io con le mie considerazioni sulla visualità del cinema voglio ricordare le origini letterarie di questa forma d’arte perché ultimamente si scordano sempre più spesso. Poi, ovviamente, esagero apposta per provocare reazioni e domande dei giornalisti.
È arrivato alla regia dopo aver studiato fisica e filosofia. Da cosa nasce un percorso creativo così originale?
Tutti nella vita cerchiamo la nostra strada provando cose diverse. Le mie scelte sono state conseguenti l’una dall’altra. Fisica mi ha sempre affascinato ma ad un certo punto ho capito che non ero fatto per diventare uno scienziato. Mi ricordo quando una volta un professore dopo l’esame mi ha detto: “Non è per caso interessato di più all’opera dell’uomo piuttosto che ai risultati del suo lavoro?“ Studiare filosofia fu così in qualche modo la conseguenza di quanto mi disse il professore. Durante il comunismo in Polonia la filosofia “vera” si studiava solo all’Università di Cracovia che dopo il 1956 ha riacquistato un po’ di autonomia e Roman Ingarden ha potuto costruire un programma basandosi sul sistema di insegnamento che si usava nei paesi occidentali e non secondo la scuola marxista. Peraltro questo tema dell’interpretazione del socialismo è una delle cose che nei contatti con l’Italia mi disturba di più. Noi polacchi avendo vissuto sulla nostra pelle i tempi in cui il marxismo era una religione nazionale abbiamo una grande difficoltà a capire come mai l’ambiente culturale italiano l’aveva accolto senza nessuna critica e in certi casi continua ancora a valorizzarlo. Ho iniziato la regia già durante gli studi filosofici e ho cercato di abbinare due impegni. Ma quando Ingarden è andato in pensione non ho più avuto interesse a continuare con la filosofia. In qualche maniera è stato un sollievo perché il dilemma tra filosofia e cinema si è risolto da solo.
Chi sono i Maestri di Zanussi?
Soprattutto Bergman, è stato il suo cinema a convincermi che potevo avere un posto in questo mondo. Tra gli autori preferiti, ancora prima di diventare regista, ci sono Robert Bresson, Buñuel e René Clair che forse oggi non sarebbe male mostrare e far conoscere a fondo alle giovani generazioni. Poi, quando ho iniziato la mia avventura di regista, ho scoperto Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. L’influenza di questi maestri è stata enorme, più ancora del tanto celebrato neorealismo italiano che conoscevo ma che non mi ha mai entusiasmato più di tanto. Le opere simbolo del neorealismo mi sembravano un po’ paternalistiche e false. Gli anni del boom economico in Italia sono stati dipinti dal neorealismo come un periodo di decadenza nazionale. Ed invece al contrario in quegli anni l’Italia si stava urbanizzando e le ricadute positive degli anni Cinquanta-Sessanta, quando il Paese si è rialzato dopo gli anni della guerra, si apprezzano ancor oggi. Analizzando a fondo il messaggio del neorealismo sembrava quasi che quel movimento intendesse dire che per l’Italia sarebbe stato meglio seguire la strada del socialismo.
Nella generazione contemporanea dei registi italiani e polacchi ci sono emuli dei grandi maestri del cinema?
Siamo in ritardo di qualche settimana perché a proposito dell’Italia avrei detto Ermanno Olmi ma purtroppo è appena scomparso. La sua visione di regista mi piaceva molto. Tra gli altri registi che apprezzo c’è Edoardo Winspeare che una volta mi ha invitato a casa sua in Puglia e così mi ha conquistato. Con attenzione seguo anche le opere di Nanni Moretti anche se spesso non sono d’accordo con lui. Tanti altri grandi personaggi che conoscevo non ci sono più, sono rimasti Franco Zeffirelli e Paolo Taviani che apprezzo molto e con i quali ogni tanto ci vediamo. Purtroppo nella generazione contemporanea non vedo nessuno che abbia un proprio stile narrativo. Spesso nascono opere interessanti e poi niente, silenzio. Mi sembra che l’Italia sia in un momento di trasformazione in cui l’identità culturale è molto fluida. Prima si sapeva che c’erano dei personaggi cardine come Fellini, Verdi, Puccini, ovvero si riconoscevano maestri che avevano creato canoni di stile nelle diverse discipline. La stessa cosa mi preoccupa tra i giovani autori polacchi. Fanno uno, due film belli e poi si perdono nei lavori commerciali oppure fanno le serie sotto un altro nome. Certo ci sono nomi che spiccano, ma non vorrei fare la classifica, l’importante è che in Polonia ci sia una continuità creativa e qualitativa.
Una volta i film erano anche un grido di libertà, ovvero un gesto di rivolta contro il sistema, forse adesso i giovani non hanno nulla a cui ribellarsi?
Ce l’hanno più che mai! La società di oggi è caduta nel culto del consumismo e, secondo me, sta andando verso l’autodistruzione. Il ruolo dell’artista oggi è gridare forte affinchè questo non accada. Non esiste un tempo nella storia in cui l’umanità possa dire d’avere raggiunto il paradiso sulla terra. E la convinzione che possa realizzarsi una società ideale è il sogno che ci stimola nella ricerca e nell’evoluzione.
E Lei come vive la realtà di oggi?
Da sempre vivo in un’atmosfera di trasformazione. Sono nato prima della guerra, ho passato l’infanzia nello stalinismo e da qualche anno vivo in un paese indipendente con l’economia libera. Sono stati tutti cambiamenti importanti e profondi. Inoltre mi calo sempre nelle realtà dei paesi in cui giro i miei film. Al mondo di oggi invece guardo con occhio critico e forse con un po’ di delusione. La mia generazione ha vissuto la grande esperienza della vittoria di Solidarność, una trasformazione pacifica che ha permesso di cambiare un intero sistema sociale senza atti di violenza. È stata una diffusa rivolta delle masse contro il marxismo sovietico da cui forse la Polonia è uno dei paesi che ne è uscito meglio. Ma questa bella trasformazione sta venendo sprecata, e questo mi provoca una certa delusione perché non siamo una nazione così bella come sembrava potessimo diventare.
Quali valori trasmettere quindi ai giovani perché continuino a migliorare la situazione del paese?
Di sicuro in un mondo così versatile come quello di oggi bisogna cercare ciò che è durevole perché questo riporta un certo equilibrio. Mi invitano spesso agli incontri con i giovani imprenditori ai quali ripeto sempre di ricordarsi le parole delle nonne, ne traggono più profitti che da quello che gli dicono i vari personal coach. Le cose che si dicono nei workshop sono spesso superficiali e prive di valori veri. Osservo quei giovani che attraverso una promozione professionale sono riusciti ad entrare in una civilizzazione sviluppata ma che dal punto di vista culturale sono persi. I valori sono durevoli e immutabili, cambia solo il modo della loro attuazione. Bontà, verità e bellezza oggi sono solo declinati diversamente ma in realtà sono sempre gli stessi valori aristotelici che non vanno messi in discussione.
foto: Maciej Szczesniak (foto dal film), Graziano Arici