Jarek Mikołajewski: vi racconto il mio inguaribile amore per l’Italia

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Qui di seguito l’intervista a Jarek Mikołajewski, poeta, scrittore, traduttore, ma anche autore di libri per bambini, saggista e giornalisti. Nato a Varsavia nel 1960, dal 1983 al 1998 è stato docente della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Varsavia e dal 2006 al 2012 è stato direttore dell’Istituto Polacco di cultura a Roma. Ha tradotto dall’italiano al polacco opere di Dante, Petrarca, Leopardi, Montale, Ungaretti, Luzi, Pavese, Pasolini, Levi e altri ancora. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in Italia, quali la Stella della Solidarietà Italiana, il Premio Nazionale per la Traduzione, il Premio della Città di Roma e il Premio Flaiano. L’intervista è stata pubblicata sul numero 64 di Gazzetta Italia (agosto/settembre 2017).

Cominciamo dalle radici, come nasce la tua passione per l’Italia?

È difficile decifrarlo, sono nato nel 1960 e ricordo che alla TV si parlava molto di Andreotti, Fellini, De Sica ma brandelli d’italianità arrivano in ogni generazione. Più interessanti erano i racconti di mio padre che durante la seconda guerra mondiale era in un campo di lavoro, dove ha incontrato un gruppo di napoletani, prigionieri di guerra anche loro, le più simpatiche e allegre persone che lui abbia mai conosciuto. Un altro stimolo verso l’Italia è stato il libro Mestiere di vivere di Cesare Pavese dove ho ritrovato me stesso, i miei pensieri, la mia melanconia giovanile, e soprattutto la questione della morte e del passar del tempo. Vi ho trovato anche temi nuovi come combattere contro i pensieri suicidi oppure l’amore ossessivo. Mi è piaciuto molto Pavese e ho pensato: Ecco una persona a cui posso dedicarmi! L’altra persona a cui mi ispiravo era il critico letterario Zbigniew Bieńkowski che nella sua recensione La costola di Eva definì Pavese lo scrittore più intelligente che lui avesse mai letto. Quell’affermazione mi ha confermato la bontà della mia scelta. In seguito ho saputo che nel liceo Batory avevano formato una classe con l’italiano, la prima del genere in Polonia e lì ho continuato la mia formazione. Ho conosciuto professori meravigliosi che mi hanno dato dei consigli, mi hanno incoraggiato a tradurre e mi hanno aiutato nei primi contatti con gli italiani.

Hai cominciato a tradurre già al liceo?

Negli anni del liceo ho cominciato a scrivere poesie ma non vale la pena di parlarne. Ho cominciato a tradurre all’università. Sono capitato in una buona annata, con me c’erano Filip Łobodziński, Jarek Gugała, Andrzej Sosnkowski e tutti traducevamo. Solo che l’abbiamo fatto in modo non convenzionale perché durante la Legge Marziale era problematico pubblicare le proprie opere. Ho sempre voluto scrivere ma tutti quanti avevamo deciso di non collaborare con il sistema e quindi si traduceva di nascosto. Le mie traduzioni erano ispirate a due persone: Silvano De Fanti, secondo me il maggiore traduttore della letteratura polacca in italiano, e Halina Kralowa, ottima traduttrice della lingua italiana in polacco. I loro corsi consistevano proprio nella traduzione, cambiava solo la lingua verso la quale si traduceva. Mi ricordo una dedica in una delle traduzioni di De Fanti: “A Jarek Mikołajewski questi versi di stampa freschi mentre tutti proni e chini aspettiamo Pasolini”. All’epoca stavo lavorando proprio alla traduzione di Pasolini ma non sono riuscito a mettere d’accordo Marx con Gesù Cristo e ho dovuto aspettare fino al 1998 per farla uscire.

I primi viaggi in Italia?

Alla fine del liceo il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Romolo Cenia, ci ha consegnato le borse di studio per un corso di lingua a Siena perché abbiamo vinto un concorso. I miei genitori mi hanno comprato un biglietto a fascia chilometrica e sono partito nel mio primo viaggio all’estero, avevo diciotto anni. Il viaggio è stato infinito. Quando sono finalmente arrivato stavo per svenire. Mi ricordo che mi hanno assegnato 5 dollari di valuta estera ed era tutto per un mese di soggiorno. Dovevo ricevere una borsa di studio ma dopo ho saputo che in realtà erano i soldi per pagare la quota d’iscrizione al corso e il collegio al centro della città. Prima della partenza mia madre mi ha comprato un grande pezzo di salsiccia secca, ne mangiavo una grossa fetta ogni giorno e questo era il mio piatto. Appena arrivato ero talmente confuso che volevo prendere un taxi, il posteggio era vuoto ma c’era una cabina telefonica con un telefono che suonava. Ho risposto prenotando un taxi alla stazione, dall’altra parte ho sentito una voce femminile: Ma no, sono io che sto chiamando per ordinare un taxi a casa mia! Quell’anno per la prima volta sono andato a Roma con un gruppo di studentesse di medicina di Cracovia. Era il periodo tempestoso dell’attentato a Aldo Moro, della morte di Paolo VI e del brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I. Ho cercato di leggere i testi di Sciascia su Aldo Moro ma non capivo ancora tanto di quella realtà.

Le amicizie italiane di quel periodo?

All’inizio degli anni Ottanta per l’arrivo in Polonia di un gruppo d’italiani fui chiamato da un’agenzia di viaggi che mi propose di fare da guida e interprete. Mi assicurarono che sarei stato affiancato da una coppia di guide professioniste che parlavano italiano. Poco dopo scoprimmo che si trattava di una coppia di cambiavalute in nero che, una volta cambiati i soldi, sparì. Rimasi solo con 90 persone venute in Polonia per uno scambio culturale, tutti in qualche modo interessati al comunismo. Andammo a Słupsk dove fummo ospitati in una scuola gastronomica. Mi ricordo che la loro più grande delusione era dover mangiare ogni giorno la pasta stracotta con le fragole. Dopo un po’ di tempo non ce la facevano più. Siamo diventati tutti amici. All’epoca Słupsk era una città molto strana. Era il periodo in cui iniziavano gli scioperi nei cantieri navali di Danzica e a Słupsk c’era una scuola militare con i reparti pronti ad intervenire in caso di bisogno. In quel momento parte di quei giovani italiani perse l’ammirazione verso il comunismo perché si resero conto d’improvviso quale era la realtà. Di quel soggiorno polacco apprezzarono soprattutto il Parco Nazionale di Wolin e le dune di Łeba. Un giorno furono invitati a mangiare il pollo arrosto e non dimenticherò mai lo scoppio degli applausi all’arrivo del piatto. Alla fine della gita fecero tra loro una colletta che mi permise di andare a trovarli già la stessa estate, in agosto. Visitai Terni, Narnia e Amelia, ospite di tutti, conobbi la vita italiana autentica da dentro e scoprii quell’Umbria che ora descrivo nel mio ultimo libro Terremoto.

Come valuti la tua esperienza all’Istituto polacco di cultura di Roma?

È stato Bolesław Michałek, il grande critico cinematografico, a convincermi di partecipare al concorso. Ho provato tre volte, solo nel marzo del 2006 sono riuscito a vincere. Abbiamo organizzato tanti eventi belli e significativi. Durante quegli anni l’istituto di Roma era considerato il migliore tra gli istituti polacchi all’estero. Abbiamo organizzato gli incontri con poeti, scrittori, registi, attori e insieme a loro abbiamo diffuso la cultura polacca in luoghi come l’Accademia Santa Cecilia a Roma, il Palazzo Ducale a Venezia, l’Hotel Tre Donzelle a Siena e tanti altri. Ryszard Kapuściński è venuto subito all’inizio del mio soggiorno (e poi tante volte ancora) all’inaugurazione della Biblioteca Europea di Roma. È stato un incontro di valore durante il quale abbiamo ascoltato parole importanti. Tre volte abbiamo ospitato Wisława Szymborska. Mi ricordo che durante un viaggio verso Bologna mi chiamò Umberto Eco chiedendo di poter leggere la sua poesia preferita durante l’intervento della poetessa all’Università. Quando siamo entrati in Aula Magna, Eco era davanti a tutti noi, ha guardato la folla di gente, si è girato e ha detto: porca puttana! È stato forse il più grande incontro poetico nella storia dell’Università. Se qualcuno mi chiede che cosa mi è rimasto degli incontri italiani con Szymborska rispondo: le sue domande tipo perché non ci sono fiori azzurri in Sicilia? perché ci sono tanti monumenti di Garibaldi e non c’è neanche uno di quelli che posavano i mosaici? Potrei continuare a lungo perché erano tante. Il più bel ricordo del soggiorno romano sono proprio gli incontri con le persone e i rapporti che sono rimasti fino ad oggi. Mi sembra sia stato un periodo d’oro dell’istituto.

L’anima polacca e quella italiana, quanto si assomigliano?

L’Italia è così grande che non possiamo generalizzare. Ultimamente sono stato a Milano e, dopo Roma, è stato davvero uno shock, non pensavo che la differenza fosse così visibile.  Stimo gli italiani per una cosa, e lo descrivo chiaramente nel mio ultimo libro Terremoto, loro sanno reagire alla situazione in cui si trova oggi il nostro continente, lo dico in modo apolitico, gli italiani stanno salvando l’Europa e tra l’altro anche noi. I polacchi non sono in grado di fare compromessi. Ho suggerito, ad esempio, di non disprezzare e offendere le persone, il dialogo è stato aperto ma senza arrivare a nessuna conclusione. Gli italiani sono d’accordo su una questione, possiamo perfino essere xenofobi, razzisti, e i profughi possono farci arrabbiare ma salviamo chi affoga, salviamo chi sta per morire. È bello perché alla fine non ci vuole tanto per essere buoni. Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, mi diceva spesso che loro non sono bravi nell’organizzazione, nelle procedure ma sanno come salvare gli altri. Hanno trovato un punto di umanità sotto il quale non scendono e non vogliono scendere, e questo conta ed è molto importante. Noi non siamo capaci di farlo, se qualcuno ci chiede aiuto troviamo mille scuse per non darglielo. Invece, se qualcuno chiede aiuto l’unica cosa che non si dovrebbe fare è contestare quel bisogno. Ogni tanto capita un momento nero nella storia, anche noi ce l’abbiamo avuto, adesso è capitato a qualcun altro. Sono molto a favore della solidarietà umana perché tutti percepiamo il dolore nello stesso modo. Gli italiani sentono la responsabilità e l’hanno sempre sentita, riflettono e fanno i riferimenti alla cultura antica. Ho sentito dire da un vigile del fuoco mentre stava salvando la gente: alla fine tutti siamo i figli di Antigone. Anche noi torniamo alle fonti antiche, alla Bibbia, leggiamo la letteratura ma non sono per noi un autentico punto di riferimento, non arriviamo al senso di quello che leggiamo e non lo applichiamo nella vita. Sbrighiamo alla meno peggio le letture scolastiche senza nessuna riflessione. In Italia ogni settore è caratterizzato dalla professionalità e dall’orgoglio del mestiere che si esercita, qualsiasi mestiere sia. Secondo me gli italiani stanno facendo progressi, sono fedeli ai principi dell’umanità, purtroppo non percepisco tra noi polacchi la stessa tensione evolutiva e la volontà di fare qualcosa per gli altri. Amiamo tanto Ulisse ma che cosa faremmo se lo trovassimo su un gommone? Saremmo affascinati allo stesso modo? Gli italiani l’avrebbero almeno salvato.

È il motivo per cui ne scrivi nei tuoi ultimi libri?

Spesso si tende a scrivere solo di cose positive, abbiamo una rivelazione e cerchiamo di presentarla agli altri. Io parlo invece di quello che mi disturba e non mi piace. Quello che succede adesso in Polonia non entra per niente nella mia poetica. Siamo in un vuoto culturale, ne sono sicuro. Abbiamo perso tutto ciò che abbiamo cercato di coltivare per anni, abbiamo smesso di comprendere gli altri. Mi chiedo se abbiamo ancora un’identità? Non sto parlando dell’identità cristiana o mediterranea, sto dicendo che noi non ce l’abbiamo per niente. Secondo me sarebbe meglio affermarlo così almeno smettiamo di essere ridicoli. C’è stato il momento in cui la Polonia si vantava dei suoi successi, anche quando ero ancora all’istituto abbiamo cercato di convincere la stampa italiana di scrivere del nostro sviluppo economico, che siamo la tigre dell’Europa. Adesso tante grandi e note persone mi fanno le domande tipo: Se state così bene e avete guadagnato così tanto perché adesso non volete condividerlo? Non ci sentiamo per niente parte della comunità.

I polacchi sono ancora affascinati dell’Italia e della cultura italiana?

Purtroppo siamo troppo superficiali e in realtà ne sappiamo poco. Spesso parliamo di Chianti, della Toscana, di cappuccino e di cornetto. È piuttosto il fascino del consumismo italiano. Mi ricordo quando con Roberto Innocenti abbiamo presentato la mia traduzione di Pinocchio con le sue immagini. Lui ha mostrato la Toscana povera e tutti hanno chiesto perché ha disegnato la regione in modo talmente povero se è così bella. Roberto ha risposto: perché ci sono nato e so come è davvero. Siamo entusiasti dei grandi personaggi italiani o del calcio, ma è questo il fascino per l’Italia? Dappertutto troviamo tracce d’italianità ma non ci accorgiamo delle difficoltà quotidiane della vita italiana. Abbiamo tante affinità nella storia ad esempio la necessità di costruzione di un paese coerente, lotte per la libertà, emigrazione. Eccovi un concreto esempio di solidarietà italiana successo quando, nel 1986, sono andato a fare un corso su Dante all’Università di Napoli. Appena arrivato sono salito sull’autobus che andava all’università e ho dimenticato il biglietto. Ho visto il controllore avvicinarsi. Dall’altra parte si avvicina un altro uomo simile a Wacek Mielczarek, uno dei personaggi oscuri di una novella di Iwaszkiewicz. Ero terrorizzato perché ho sentito tante storie sulla città. Non sapevo cosa fare e davvero ho pensato d’essere in pericolo. Ad un certo punto quell’uomo mi chiede: Sei straniero, vero? Non hai il biglietto? Prendi il mio, io so scappare. Bisogna rattoppare i buchi e aiutare dove i problemi sono più grossi senza guardare se il problema è mio o dell’altro. Per questo ammiro gli italiani. Posso dire che la mia passione per l’Italia è una malattia incurabile, punto e basta.

foto: Michał Moryl