Dei poeti polacchi del dopoguerra Tadeusz Różewicz (Radomsko 1921 – Wrocław 2014) fu il primo a guadagnarsi in vita un’antologia dei suoi versi in lingua italiana: col titolo Colloquio con il principe (Milano 1964) la allestì Carlo Verdiani, benemerito professore e divulgatore fiorentino della letteratura polacca.
In seguito, la fortuna di Różewicz in Italia è stata diseguale, e certamente inferiore a quanto avrebbe meritato, se paragonata a quella degli altri tre “grandi” della poesia polacca contemporanea, Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert e soprattutto Wisława Szymborska. Tanto più che, a loro stessa detta, di tutt’e tre Różewicz è stato, se non anche un maestro, sicuramente un interlocutore fondamentale, con la sua dizione semplice, scarna, ai limiti del silenzio; col suo pessimismo velato da una intelligentissima ironia, senza “effetti speciali” né particolare pathos, sempre avvolto da quella “inquietudine” che aveva dato il titolo alla sua prima raccolta poetica del 1947 (Niepokój). La sua intera produzione si muove così fra avanguardia e postmodernismo, senza mai cadere nelle oscurità linguistiche della prima, né tanto meno nei giochi manieristici del secondo.
Ma Różewicz non è stato solo poeta: col suo teatro, e già col suo primo e forse più famoso dramma Kartoteka (1960, reso in italiano da Anton Maria Raffo, altro docente e traduttore fiorentino di grande finezza), Różewicz s’impose come uno degli innovatori della drammaturgia polacca, avvicinandola alle coeve esperienze europee del teatro dell’assurdo; e anche nella sua prosa narrativa e saggistica ha toccato fin dagli anni ’40 del secolo scorso temi che oggi sentiamo ancora attualissimi come quelli della cultura e del turismo di massa, del consumismo e dell’inquinamento ambientale.
Fra i traduttori italiani, in tempi più recenti, si è distinto un altro eccellente studioso di scuola fiorentina, Silvano De Fanti, alla cui bravura si devono l’ampia antologia poetica Le parole sgomente (Pesaro 2007) con un’ampia e bella introduzione, e di Una morte tra vecchie decorazioni (Udine 2011), romanzo breve sulla visita a Roma di un edicolante polacco in pensione, che fra pensieri, grandi aspettative e cocenti delusioni, dopo una “vita senza significato” trova “una morte casuale e priva di significato” fra le decorazioni di cartapesta del teatro d’opera alle Terme di Caracalla.
Eroe lirico e narrativo di Różewicz è quindi un Everyman, “l’uomo che un momento fa abbiamo incrociato per strada” (scriverà nella postfazione a Una morte fra vecchie decorazioni), che, come tanti altri, giunto nel mezzo del cammino anche più in là con l’età, ha perso la fede e la via, smarrito in un mondo che, piuttosto che di una selva oscura, ha assunto sempre più i tratti di un immondezzaio. Śmietnik (“immondezzaio”) diviene così parola-chiave della poetica di Różewicz, in quella che, più che una protesta anticipatoria dell’odierno ecologismo, sembra essere l’ineluttabile sfondo del viaggio esistenziale dell’uomo sopravvissuto alla catastrofe della guerra e dei totalitarismi e comunque soggetto alla violenza della storia e alle brutture delle società contemporanee.
In tutto questo nella sua scrittura – poetica, drammaturgica e anche narrativa – predilige il frammento (Zawsze fragment: “Sempre un frammento” e Zawsze fragment recycling, sono i titoli di due sue raccolte poetiche del 1996 e 1998), il collage e il riciclaggio (proprio come nel caso dei rifiuti) di materiali preesistenti. Si veda ad esempio quello che è – a mio parere – uno dei capolavori dell’opera tarda di Różewicz, il libro Matka odchodzi (“La mamma se ne va”) del 1999, fatto di foto di famiglia, brani del diario e versi del poeta, estratti dalle memorie della stessa madre Stefania, morta di cancro nel 1957, e appunti su di lei dell’altro figlio, Stanisław Różewicz (1924-2008), anch’egli scrittore e regista teatrale e cinematografico.
L’Italia ha un ruolo importante nella vita e nell’opera letteraria di Tadeusz Różewicz: basti pensare ai suoi viaggi, alle sue poesie dedicate a luoghi e persone, ai versi sconvolgenti in morte di Pasolini o del papa Luciani, alle poesie ispirate a Dante, nonché ad alcune importanti occasioni di carriera, come il già citato volume mondadoriano del 1964 o il primo premio Librex Montale International ricevuto dal poeta a Genova nel 2005.
Ma il tema italiano in Różewicz ha sempre una valenza “doppia”: da una parte, con le sue bellezze naturali e artistiche, l’Italia sembrerebbe di per sé rappresentare un contraltare della bruttezza e inumanità del mondo contemporaneo (né poteva essere altrimenti per un laureato in storia dell’arte che per tutta la vita ha idealmente dialogato con gli artisti e le loro opere, con le città d’arte e i loro musei); dall’altra, proprio per lo stesso motivo, risulta un potentissimo memento mori: “siamo a Venezia insieme / non ci posso credere / baciami / Lei è polacco / brindiamo / sono solo al mondo” (Et in Arcadia ego).
Fra le sue opere “italiane” due in particolare: il poema Et in Arcadia ego e il citato Una morte tra vecchie decorazioni, entrambi frutto di un soggiorno di tre mesi nella penisola nel 1960, colpiscono per la loro originalità rispetto alla tradizionale visione dell’Italia come locus amoenus. Come ha scritto giustamente Silvano De Fanti “il mito dell’Italia è il punto di partenza per la critica różewicziana della cultura europea contemporanea” (introduzione a Le parole sgomente, p. 24). Un’Arcadia, dunque, ma, come nel quadro del Guercino da cui il poema trae il titolo, un paradiso terrestre dove si annidano morte e sfacelo. Per chi oggi A.D. 2021 cammina per certe strade di Roma colpisce la feroce attualità di quanto scriveva quella volta il poeta: “Ho cercato tracce di segni epifanici, e invece ho trovato tracce di un grande letamaio, il mescolamento selvaggio tra cultura e turismo” (citazione da: S. De Fanti, introduzione a Le parole sgomente).
In questo VII centenario della morte di Dante Alighieri varrà allora la pena allora di riportare almeno qualche verso della sua poesia Brama (“La porta”, tratta dalla raccolta Nożyk profesora, “Il coltellino del professore”, 2001), inedita fin qui in italiano, che a noi, oltre che l’incipit del III canto dell’Inferno, può paradossalmente ricordare da vicino il Calvino delle Città invisibili: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, pur mantenendosi Różewicz sempre fedele alla poetica minimalista delle prime raccolte:
Lasciate ogni speranza / Voi ch’entrate // Coraggio! Oltre questa porta non c’è l’inferno // L’inferno è stato smontato / dai teologi / e dagli psicologi del profondo // è stato trasformato in allegoria / per motivi umanitari / e pedagogici / Coraggio! / Oltre questa porta comincia / di nuovo lo stesso […] Coraggio! / Oltre questa porta non c’è storia / né bene né poesia // E cosa ci sarà / Sconosciuto signore? / Ci saranno pietre / Una pietra / Su una pietra / Su una pietra una pietra / E su quella pietra / Ancora una / pietra.
Dopo quelli di Cyprian Norwid e di Stanisław Lem, a metà dicembre anche il centenario di Tadeusz Różewicz verrà celebrato presso l’Istituto Polacco di Roma, con interventi del suo maggior traduttore Silvano De Fanti e di Giulia Olga Fasoli, che a breve discuterà alla “Sapienza” di Roma un lavoro di dottorato su “Costanti e varianti nell’opera poetica tarda di Różewicz”, nonché uno spettacolo ispirato a Et in Arcadia ego a cura dello scrittore Renato Gabriele e del musicista Raffaele Riccardi.
In Polonia per questo anniversario hanno già avuto luogo convegni, spettacoli, eventi e manifestazioni, anzitutto a Wrocław, sua città d’elezione, ma anche in tutto il resto del paese. Il 2021, oltreché anno di Dante, di Dostoevskij, di Baudelaire, dovrà essere a buon diritto ricordato anche per Różewicz, fra i grandi poeti polacchi contemporanei il meno “vate”, ma paradossalmente forse il più profetico.
Ho avuto la grande fortuna di conoscerlo personalmente: una prima volta nel 2003, assieme al suo grande amico Edoardo Sanguineti, e poi, durante una memorabile serata poetica in Campidoglio e una, altrettanto (per me) memorabile, passeggiata al Testaccio al Cimitero acattolico degli artisti e dei poeti. Di lui mi sarà impossibile dimenticare il sorriso infantile, malinconico e dolcissimo.