Ieri, oggi, domani

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Antonella Lualdi e Vittorio De Sica in "Padri e figli" (1957)

Il ladro di biciclette che spogliò sullo schermo Sophia Loren. Il comico dal sorriso sbarazzino che faceva i conti con i traumi dell’Italia del dopoguerra. Lo scopritore dell’oro di Napoli e del miracolo a Milano. Donnaiolo. Intelligente. L’uomo che insegnava a baciare a Marcello Mastroianni. Per il mondo un grande regista, per gli italiani il corteggiatore del cinema. Ecco Vittorio De Sica.

È il 1901. Inizia il XX turbolento secolo che mostra d’avere voglia di cambiamenti fin dai primi giorni, mesi. È leggermente impudente. Ribelle senza motivo. Dice addio al mondo vestito in abiti antichi ispirati ai chitoni greci, ancora di moda alla fine del secolo precedente. Nascono Marlene Dietrich, Walt Disney, Gary Cooper. Il cinema presto accoglierà i loro volti. Dopo quasi 64 anni di regno muore la regina Vittoria. Arriva il mondo nuovo. Scienza, tecnica, pensiero, tutto corre. A Stoccolma si assegna il primo premio Nobel. A Parigi si apre la prima mostra di Pablo Picasso, nasce il cubismo. In Italia Italo Pacchioni, inventa e costruisce una macchina da presa – dopo che i fratelli Lumiere avevano rifiutato di vendergli il cinematografo – con cui filma il funerale di Giuseppe Verdi a Milano. E così l’opera cede il passo ad una nuova musa. In questo clima, a Sora nel Lazio, in provincia di Frosinone sul fiume Liri, viene al mondo Vittorio De Sica. Uno dei grandi padri italiani del cinema.

Sono le 11:00. Esattamente il 7 luglio. C’è afa. Il sole sembra essere un grande girasole. Sotto i suoi raggi, poco prima di mezzogiorno, nasce Vittorio Domenico Stanislao Gaetano De Sica. Viene al mondo nella famiglia del signor De Sica, impiegato nell’ufficio locale della Banca d’Italia, originario di Cagliari in Sardegna. È proprio al padre che il regista dedica uno dei suoi film più importanti “Umberto D.” (1952), una storia nostalgica di un uomo anziano e del suo cane, emarginati che provano a sopravvivere a Roma con la pensione del governo mente madre, una casalinga napoletana che ha dato tutta la sua vita per creare il calore famigliare. Subito dopo la nascita in una famiglia modesta, che col tempo ha definito come “miseria aristocratica”, finisce nella parrocchia di S. Giovanni Battista, dove nelle mani dei padrini (Sorani Alfonso e Cristina Giannuzzi) viene battezzato ricevendo, come quinto nome, Sorano, omaggio alla città medievale di Sora.

Nei primi due decenni Vittorio ancora adolescente viaggia. Percorre la strada della vita insieme con la famiglia alla ricerca del posto giusto. Prima il trasloco a Napoli, poi a Firenze e poi ancora a Roma. In questo periodo, incoraggiato dal padre, il futuro re dello schermo finisce il corso di contabilità. Ma la prospettiva di una vita passata contando gli sembra follemente noiosa, perciò contemporaneamente sviluppa anche le sue passioni artistiche. Così è con la scrittura tanto che, ancora ragazzino, pubblica dei suoi testi nei giornali locali. Questo è dovuto all’influenza del padre che negli anni 1909-1915 collaborò con lo pseudonimo Caside con il mensile “La voce dei Liri”. Questa esperienza stimolata dal padre lo lancia verso la prima decisione autonoma di unirsi ad un gruppo di attori principianti esibendosi per i soldati e i feriti durante la Prima Guerra Mondiale.

Vittorio De Sica, fot. Gianfranco Tagliapietra

Già durante il corso di contabilità De Sica cominciò ad essere attratto dall’ambiente del teatro dove lo accolsero come se fosse uno di loro. Grazie a un amico di famiglia, il regista Edoardo Bencivenga, presto ottenne una piccola parte nel film muto “Il processo Clémenceau” (1917) di Alfredo De Antoni. Ancora adolescente collaborò con Francesca Bertini, una delle più grandi star del cinema muto e con Gustav Sereni, l’amante dello schermo che in tutta la sua carriera recitò in oltre 100 film. Da quel momento cominciò a splendere il suo grande talento, infatti come diceva lo stesso De Sica: “nel film non basta recitare, bisogna anche avere talento”. Il talento e la carriera cominciano a prendere velocità dopo la Grande Guerra. Il giovane ragazzo presto guadagna popolarità, anche nella sua città natale, dove ritorna dopo quasi dieci anni. È il 1922 e il giovane debuttante accetta l’invito ad un concerto durante il quale recita “Canto” di Francesco Piave con l’accompagnamento del padre.

Gli anni ’20 del Novecento per il futuro co-creatore del neorealismo significano viaggiare per i teatri di tutto il mondo. Grazie alla conoscenza dell’attore Gino Sabbatini e consigliato dallo scenografo Antonio Valente si unisce alla prestigiosa compagnia teatrale di Tatjana Pavlova per recitare la parte del cameriere nel “Sogno d’amore” di Kosorotov.

Successivamente, con il gruppo della Pavlova, si reca in tournée in Sudamerica, dove recita il primo ruolo importante, Gaston, in “La Signora delle camelie”, basato sul romanzo di Alexandre Dumas. Il clima iberoamericano gli fa benissimo e sviluppa tante amicizie. Al contrario delle tendenze dell’epoca, quando il mondo artistico pulsava in Europa, a Parigi soprattutto, lui sceglie l’America, dove decide di recitare nel film di Mario Almirante “La bellezza del mondo”, al fianco della futura grande star del cinema muto, Italia Almirante–Manzini, la moglie del regista. Con Mario Almirante inizia una lunga collaborazione che consiste anche nel lavoro di traduttore ad esempio sul set del film “La compagnia dei matti” (1928).

Con il nuovo decennio, De Sica, notato da Mario Mattoli cofondatore di Spettacoli Za-Bum (il primo serio esperimento italiano che unisce la commedia con il teatro drammatico) ottiene l’ingaggio come primo attore. Dopo diversi anni di successi nel 1933, insieme alla moglie, l’attrice italiana Giuditta Rissone, formano una compagnia teatrale che nell’epoca della presa del potere del fascismo in Italia propone soprattutto delle commedie leggere, anche se ogni tanto gli autori si lanciano in testi di alto livello, tra cui pezzi di Pierre Beaumarchais.

Nel periodo che precede la Seconda Guerra Mondiale, Vittorio De Sica entra nella storia della cultura italiana come attore. Un bel Don Giovanni cui le donne non sanno resistere. Prima del secondo conflitto mondiale ha già alle spalle oltre trenta ruoli in vari film. Sono soprattutto produzioni leggere ma vale la pena menzionarne qualcuna come: “Uomini, che mascalzoni!” (1932) e “I grandi magazzini” (1939). Questi e altri film De Sica li girò con Mario Camerini, il più famoso regista delle commedie italiane degli anni ’30, un caro amico di De Sica che contribuì a renderlo famoso in tutto il mondo. Ma il successo e la fama ottenuti grazie a cinema e teatro avevano un serio concorrente: la passione per il gioco d’azzardo che lo portava spesso a sperperare ingenti somme di denaro. Per questo De Sica accettava tanti ruoli, anche se artisticamente non li apprezzava, una scelta fatta per guadagnare e mantenere la famiglia. Non nascose mai la sua passione per l’azzardo che a volte trasferì nei suoi personaggi, sia in alcuni suoi film come “L’oro di Napoli” (1954) che in quelli di altri registi. Il coinvolgimento dei personaggi interpretati da De Sica nel gioco d’azzardo è importante per la trama ad esempio de “Il generale Della Rovere” (1959) di Roberto Rossellini oppure in “Montecarlo” (1956) di Simon A. Taylor in cui negli scenari del casinò di Montecarlo giocò con Marlene Dietrich.

Vittorio de Sica con il suo sorriso sbarazzino sullo schermo si è guadagnato il soprannome di “Cary Grant italiano”, insomma il George Clooney di oggi. Ma questo ruolo col tempo iniziò ad andargli stretto e allora cominciò a dedicarsi soprattutto alla regia. Debuttò nel significativo anno 1939 sotto l’egida di un grande produttore, Giuseppe Amato, con il film “Rose scarlatte” in cui interpretò il ruolo principale. Nel frattempo scriveva romanzi e fumetti. Nei primi anni ’50 ebbe un grande successo come traduttore della commedia “Altri tempi” (1952, A. Blasetti) e “Pane, amore e fantasia” (1953, L. Comencini), in tutte e due si presentò al fianco di Gina Lollobrigida che in quel momento era al culmine della sua popolarità.

Vittorio De Sica e Rosanna Schiaffino, anni Sessanta, Mostra del Cinema di Venezia

Come regista capiva bene gli attori perché conosceva la complessità dei vari ruoli, De Sica era infatti famoso per la capacità di aiutare e ispirare gli interpreti. Fu di grande aiuto soprattutto per gli esordienti. Come molti altri registi italiani di quel periodo, gli piaceva coinvolgere nei film gente comune che non aveva esperienza di recitazione, e in questa modalità poteva esprimere al meglio la sua capacità di insegnare a recitare. Ogni tanto però i consigli erano incredibilmente dettagliati, spesso istruiva meticolosamente anche gli attori più famosi che calcavano i set dei film. Così successe ad esempio in “Matrimonio all’italiana” (1964) quando nella scena intima tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni si unì a loro distendendosi a letto e facendogli vedere come dovevano baciarsi. De Sica sceglieva gli interpreti dei suoi film in base all’autenticità dei loro volti, cercandoli per strada. Lamberto Maggiorani, il personaggio mingherlino di “Ladri di biciclette” (1948) era un operaio, Carlo Battisti che recitò il ruolo di Umberto D. era un professore universitario in pensione. Ma ogni tanto, come nella vita, quando aveva voglia di leggerezza ingaggiava per le sue commedie star da prima pagina come Cary Grant o Spencer Tracy.

I film di De Sica rappresentano un capitolo fondamentale nella storia del cinema, alcuni sono pietre miliari come “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” o “Umberto D” oltre ad essere una pagina fondamentale del neorealismo italiano. Tre film che non rappresentano soltanto la realtà del dopoguerra ma indagano le tragedie individuali.

Nei film di De Sica la gente non viene ricompensata e la vita non ha un gusto dolce come nelle maestose, oniriche ed edoniste realizzazioni di Federico Fellini. Vittorio De Sica non dà speranza ai protagonisti che crea. I personaggi dei suoi film più importanti sono costantemente di corsa, cercano sostegno, aiuto, riempimento del vuoto e della solitudine. Così è anche in Umberto D. che incapace di adeguarsi al nuovo, al presente, vaga senza speranza, malato, depresso, aspettando la sua fine. Aspettando il miracolo. Il miracolo che dopo anni succedette a Milano.

“Miracolo a Milano” (1951) è qualcosa di diverso nella filmografia del regista che di solito o raccontava il lato più duro della vita o allegeriva l’animo con le sue commedie. Qui invece lascia andare la fantasia ed ecco che De Sica incontra in sogno Federico Fellini da cui prende in prestito l’immaginazione. De Sica in questo film propone una favola piena di speranza che libera i poveri trascinandoli nel mondo del consumismo. Qui De Sica prevede il futuro, il branco smarrito che, quando assaggia, desidera di più. Come nella scena con la macchia di sole sotto la quale si riuniscono le persone, ce ne sono sempre di più e all’improvviso uno comincia a spingere un altro, ognuno lotta per avere un po’ di questo lusso. E anche se i critici accusarono il regista di tradimento del neorealismo, e i comunisti del tradi mento del comunismo, nessuno come lui sotto l’apparenza di una favola seppe rappresentare meglio la miseria e l’arida terra persa, una volta promessa.

Superate queste critiche, dopo aver permesso quella liberazione che normalmente vietava ai suoi protagonisti menzionati all’inizio, in De Sica emerse la nostalgia. La nostalgia del paradiso perduto. Si ritorna quindi ai tempi del fascismo per poter raccontare, attraverso la sua capacità artistica, la realtà da una prospettiva diversa. De Sica è un uomo maturo che condivide con lo spettatore la sua amarezza. Davanti a lui c’è l’Italia degli anni ’50 e ’60 in cui riemerge questo turbolento XX secolo. Invece della memoria del passato sorgono i grattacieli. Invece delle lacrime e del riso appare il vuoto. E allo ecco “Il giardino dei Finzi Contini” (1970), una delle ultime, importanti, opere del regista, basata sulla storia malinconica del romanzo di Giorgio Bassani. È uno studio sulla incomprensione, pieno di frustrazione e di incompletezza in cui pulsa il vuoto dell’Europa dei primi anni ’70. Un film che sintetizza la perdita di un’esistenza felice che non tornerà più, esattamente come non tornerà quel mondo che, per le strade di Roma, cercava Umberto D.

traduzione it: Patrycja Grunwald