(Foto copyright Piotr Suzin)
In occasione dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia abbiamo incontrato Pawe? Pawlikowski, regista dell’apprezzato film “Ida”, che rappresenterà la Polonia nella categoria degli Oscar per il miglior film straniero. Pawlikowski è un intellettuale polacco, che guarda al suo paese con l’imparzialità di chi ha vissuto gran parte della vita all’estero.
Questa distanza l’ha aiutata ad affrontare meglio i molti temi polacchi presenti in “Ida”?
“In effetti in Ida tocco alcune questioni profondamente polacche: la Polonia e i suoi paradossi, la diversità della gente, la fede, l’identità. Volevo rappresentare un determinato quadro della Polonia che mi è particolarmente vicino, portare sul grande schermo la musica e l’atmosfera di un’epoca. Volevo mostrare lo scontro tra un mondo in cui i traumi negativi della guerra, dello stalinismo, dell’olocausto si mescolano alla necessità di vivere cercando di essere felici. Dentro di me pian piano cresceva non solo la necessità di tornare alla Polonia ma di raccontare esattamente quella particolare atmosfera degli anni Sessanta. Invece, al contrario di quello che molti giornalisti hanno affermato, ci tengo a sottolineare che questo non è un film sui rapporti ebreo-polacchi.”
La Polonia vanta una grande tradizione cinematografica, però ultimamente pare che i registi siano soprattutto concentrati a girare commedie leggere destinate al massimo a fare facili incassi al cinema.
“Sì di questi tempi in Polonia si producono tante commedie, ma anche molti film seri, forse fin troppo seri tra cui: ‘Pok?osie’, ‘Daleko od okna’, ‘L?k wysoko?ci’. Mancano invece film in cui la forma e la trama abbiano qualcosa in comune, film in cui più che il tema conti lo sguardo che il regista ha sul mondo, manca qualcosa di più profondamente epico ma comunque diretto. La gran parte dei film che attualmente escono al cinema in Polonia sono o molto commerciali o tesi ad affrontare tematiche sociali (come l’omosessualità) da un punto di vista didattico o della denuncia sociale. Scelte lecite ma per me è più importante mostrare una visione del mondo in cui la forma è coerente con i contenuti della trama, film dove non ci si concentra solo sul gonfiare le emozioni. Per me è importante evitare retoriche politiche, evitare di spiegare la storia, dipingendo per forza i polacchi come eroi o come vittime. La gente è paradossalmente universale ed allo stesso tempo complicata ed il mio obiettivo è proprio questa complicatezza, che io provo ad esporre in una forma diretta.”
Dalla sua filmografia si avverte una particolare attenzione verso le tematiche politiche, la Serbia, ad esempio, oppure il tema di Stalin. Pensa di fare un film sul dittatore russo?
“Per un certo periodo sono stato vicino a queste tematiche. Per quanto riguarda Stalin volevo fare un film su un suo amico, un pazzo omicida. In passato ho girato documentari su temi politici ma che non volevano assolutamente dare un giudizio politico. Lo scopo del mio lavoro rimane sempre la ricerca di una lettura universale di un determinato tema al di là della contingenza delle azioni. Personalmente non partecipo alla politica. Neppure la capisco. Credo che in realtà non sappiamo niente di niente. Al giorno d’oggi i media riempiono la nostra testa di informazioni facendo del nostro cervello un setaccio, sappiamo tutto di tutti ma sostanzialmente niente. Non mi fido di alcun mezzo di comunicazione. Ho perfino smesso di ascoltare le informazioni (per esempio sull’Ucraina), e non parlo di una situazione politica a meno che non la conosca veramente da vicino. Le notizie che ci forniscono i media, che sono informazioni di seconda mano, sono incorniciate in narrazioni così banali che alla fine perdono il loro senso.”
Lei ha abitato per un certo periodo in Italia, ne è rimasto in qualche modo influenzato?
“È stato fantastico il mio anno in Italia! Avevo 22 anni, scappavo da Oxford dove non riuscivo a concludere il mio dottorato di ricerca e così venni in Italia dove trovai anche un piccolo impiego. Mi piace l’Italia, però non ci potrei vivere, credo sia un paese in cui non conta la meritocrazia. Bisogna continuamente saper trovare e mantenere i contatti giusti e a me personalmente non è mai piaciuto appartenere a dei centri di potere, neanche in Polonia.”
Quali sono i Suoi progetti? Si occuperà ancora della Polonia?
“Sto lavorando su tre film, ma non parleranno dei polacchi in sé, mi interessano le persone in genere, non il fatto che la trama sia ambientata nel mio paese.”
La Polonia vive un periodo di grande slancio economico.
“Sì nel complesso è un momento favorevole. Ora abito a Varsavia almeno sei mesi all’anno e devo dire che amo questa città. Sono un patriota di Varsavia, città dove sono nato e cresciuto. Sono veramente felice di essere tornato e di fermarmi qui così a lungo. E non lo dico tanto per ragioni sentimentali, ma per fatti obiettivi, a Varsavia si sta bene, succedono tante cose, la gente è interessante.”
Ritiene Varsavia una delle nuove capitali europee?
“Certamente è una bella città al centro dell’Europa abitata da una comunità vivace. Se penso a Parigi, dove ho vissuto a lungo, trovo che a differenza di Varsavia la capitale francese è troppo chiusa in sé stessa, troppo sicura, succede poco, è troppo borghese. A Parigi si ha la sensazione di vivere tra dei mobili messi là da tanto tempo e che ora non possono più essere spostati. All’opposto Varsavia è aperta, varia, eterogenea, una città piena di un’energia positiva.”
L’anno scorso al Festival di Venezia abbiamo intervistato Andrzej Wajda in occasione della premiere di “Cz?owiek z nadziei”. Dall’incontro è emersa la constatazione che nei tempi difficili del comunismo, nonostante la censura, si producevano film di qualità che venivano apprezzati nel mondo ed oggi, in un periodo di libertà e successo economico per la Polonia, i film prodotti nel paese non varcano i confini. In pratica l’economia va bene, la cultura no?
“Sono d’accordo solo parzialmente con questa affermazione. Il fatto è che all’epoca la Polonia era la linea del fronte tra due mondi. Durante il comunismo la Polonia era uno dei paesi più interessanti, esisteva una vera opposizione, si lottava per qualcosa. Eravamo la cosiddetta “baracca più felice nel lager comunista”, e nel mondo c’era molta attenzione politica e sociale verso il nostro paese. Adesso la Polonia è un normale stato occidentale e forse siamo meno interessanti. Però convengo sul fatto che oggi è triste registrare come spesso nel cinema polacco vengano copiati modelli occidentali. Ed invece non c’è bisogno di tradurre i problemi polacchi nel linguaggio di Hollywood, ma piuttosto di fare qualcosa di autentico, di interessante dal punto di vista formale e che tenga conto di una visione universale. Non bisogna concentrarsi su cosa un film dica della Polonia ma semplicemente bisogna agire senza complessi. Proprio come fa la Grande Arte che cerca di raccontare qualcosa sull’uomo con tutti i suoi paradossi, tutte le sue complicazioni e lo fa in un modo epico e appunto senza complessi. In Polonia c’è raramente questo approccio disinibito. Si fanno invece spesso film-propaganda su temi politici, che puntano a dare una certa interpretazione di un tema o a colpire un certo punto di vista, in alternativa ci si occupa di fare film che raccontano la mitologia di come siamo grandi, belli ma non compresi dal mondo o, infine, si fanno commedie mediocri. In tutto questo c’è troppo autoreferenzialismo, l’approccio è eccessivamente self-conscious, bisogna al contrario trattare la vita con canoni universali, tarati sull’uomo in genere, non sull’esser polacchi. Dopotutto in Polonia le persone non sono molto diverse da quelle che vivono altrove. La Grande Arte guarda sempre il mondo in una prospettiva eterna e universale.