Quando ci viene proposto di abbandonare i nostri doveri e fuggire in campagna, nel cuore della natura, la maggior parte delle persone sorride sognante tra sé e sé, ma presto riappaiono alla mente il pensiero del lavoro e dell’ordinaria e indaffarata quotidianità. Vogliamo andare via, sederci sulla terrazza di qualche villa e osservare la natura: il cielo, il mare, un gatto che poltrisce su un muro assolato, gli uccelli che volano in cerchio nell’aria. Vogliamo essere circondati dal verde, toccare l’erba soffice, contemplare la vita senza affanni. Notare che abbiamo tempo illimitato e nessun obbligo è più importante dello scorrere pigramente le pagine di un libro o del fotografare farfalle. Il nostro mondo oggi è accelerato a tal punto che è difficile immaginare l’ozio ideale se non mentre si aspetta un caffè alla macchinetta.
Nulla di più lontano dal Giove che appare nel dipinto del pittore rinascimentale Dosso Dossi. La storia e il soggetto del dipinto, conservato in Polonia, sono istruzioni sulla buona vita. Vi invito alla lettura.
Della natura degli dei
Dosso Dossi derivò la propria ispirazione da alcune fonti: la storia dell’Egitto tolemaico, l’antica Grecia, l’antica Roma, l’astrologia, l’esoterismo, il simbolismo. Tuttavia c’è anche un poema che ha influito direttamente sulla tematica e sulla composizione del dipinto, ovvero Virtus (La Virtù) di Leon Battista Alberti, teorico dell’arte, architetto ed erudito del primo Rinascimento. L’opera è stata scritta in latino intorno al 1430 durante un soggiorno dell’autore a Roma o poco dopo, quando stava visitando Firenze. Nel 1464 il poema è stato tradotto in italiano ed erroneamente ascritto a Luciano, sofista, retore e satirista romano del II secolo d.C. Alberti, in qualità di celebre umanista ed erudito, ha consapevolmente inserito elementi antichi nella sua opera. Virtus ha la forma di un dialogo tra la Virtù e Mercurio. La dea Virtù arriva sull’Olimpo e vuole lamentarsi con Giove della propria sorte. Nel corso di una passeggiata per i Campi Elisi in compagnia di dotti sapienti e ammiratori della moralità quali Socrate, Platone e Cicerone, la Virtù era stata attaccata dalla Fortuna. Nessuno degli dei era accorso in sua difesa. Avendo ascoltato la sua lamentela, Mercurio ritiene che questo sia un caso insolitamente difficile e che la rimostranza non abbia senso, giacché ciascuno degli dei è subalterno alla Fortuna, persino Giove. Il silenzio è la migliore soluzione e la Virtù dovrebbe usare la sua sapienza per nascondersi tra gli dei minori finché l’odio della Fortuna non si sia placato.
Il tema del poema di Alberti affascinò l’artista, perché la lamentela della Virtù contro la Fortuna venne raffigurata negli affreschi del Castello del Buonconsiglio di Trento. Le volte di una parte del palazzo furono decorate con rappresentazioni delle Virtù. Ai quattro angoli sono rappresentate le Virtù cardinali: Giustizia, Temperanza, Prudenza e Fortezza. Ai due lati più corti l’artista dipinse gli stemmi dei Medici (il papa all’epoca era Clemente VIII ed era membro della famiglia fiorentina) e degli Asburgo, ovvero dell’imperatore Carlo V. Affreschi monocromatici che mostrano la Virtù dalla storia di Alberti occupano i lati più lunghi della stanza. È curioso che proprio in queste raffigurazioni Dosso Dossi abbia mostrato la Virtù vestita di stracci, come descritto da Alberti nel dialogo. Il gruppo dei saggi dell’antichità si lamentano dietro di lei, afflitti e svestiti dei loro abiti e della loro dignità. Mercurio al contrario è impaziente, indaffarato, non vuole consentire alla Virtù di raggiungere Giove e la tratta come un’intrusa. Nel dipinto conservato in Polonia, invece, la Virtù è una donna vestita elegantemente con una ghirlanda sulla testa e nulla del suo atteggiamento o aspetto indica la sfortuna che l’ha colpita.
Un duca sibaritico
Giovanni di Niccolò di Luteri, noto come Dosso Dossi, visse nella cittadina di Mirandola, nelle vicinanze di due corti culturalmente e politicamente vivaci: Mantova e Ferrara. Attivo presso la famiglia estense, fece per loro dipinti e affreschi. Intorno al 1524, su commissione del duca Alfonso d’Este, dipinse l’opera Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù. Il dipinto raffigura tre divinità romane: Giove, Mercurio e la Virtù. Ai loro piedi fluttuano le nuvole. Sopra le loro teste c’è un arcobaleno dorato, in un cielo abbastanza cupo e avvolto dall’oscurità, che Giove usa come una tavolozza per dipingere delle farfalle. È un atto creativo, gli dei dipingono noi mortali, gli animali, gli insetti e tutti quanti, particelle della natura, veniamo alla vita sotto lo sguardo divino e voliamo in cielo o scendiamo dalla tela divina verso la terra.
Il duca d’Este era un umanista, ammiratore dell’arte e di vita militare. Era inoltre un sibarita che fuggiva dal trambusto della corte ferrarese in campagna, al palazzo di Belvedere. Occasionalmente dipingeva e creava maioliche. Leggeva poesie, assumeva artisti, si circondava di eruditi. In un ambiente bello e bucolico contemplava le opere d’arte che ordinava e acquistava. Era un tempo in cui l’inerzia, chiamata otium o riposo, era uno stato dell’essere da ricercare, un’abilità nobiliare che pochi riuscivano a usare. In questo senso il dipinto si inserisce perfettamente nel tempo del riposo aristocratico. Dipingere farfalle è creare bellezza circondati dalla natura, è lodare il riposo, importante tanto quanto il lavoro. Non sappiamo a cosa pensasse il duca d’Este osservando l’opera, ma concentrarsi sull’arte, la sua contemplazione, certamente poteva essere un momento di riposo dopo un giorno, una settimana, un mese di lavoro.
Il simbolismo del dipinto
Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù è una delle composizioni allegoriche ed esoteriche popolari nella corte ferrarese del XVI secolo. Dosso Dossi trasse ispirazione da un poema di cento anni prima, ma ai tempi del duca Alfonso I d’Este il castello era frequentato da artisti affascinati dai cicli cosmogonici, dall’esoterismo e dall’astrologia. Nel XV secolo a Palazzo Schifanoia a Ferrara, appartenente agli Estensi, venne creato un ciclo astrologico la cui iconografia è stata decifrata soltanto all’inizio del XX secolo dallo storico dell’arte tedesco Aby Warburg. Nel XVI secolo però è probabile che il simbolismo degli affreschi fosse noto in quanto non troppo risalenti. Dosso Dossi richiama temi antichi, ma il dipinto, oltre a raccontare una storia concreta, contiene in sé anche un simbolismo e un messaggio popolari nell’Italia settentrionale all’epoca. L’opera nasconde in sé anche un messaggio esoterico. Mercurio, il cui attributo è il caduceo, era il messaggero degli dei. Il medesimo caduceo d’oro esprimeva il potere esoterico di addormentare e risvegliare i viventi. Le farfalle sono simbolo della volatilità del pensiero, mentre l’arcobaleno dal quale Giove trae i colori come da una tavolozza è simbolo della volatilità delle idee. Il pittore ha pertanto combinato l’invenzione artistica al concetto di ordine universale del mondo. Il gesto di silenzio di Mercurio allude all’ispirazione. Il silenzio è necessario preludio alla creatività.
Il gesto di silenzio
Si pensa che Giove sia il protagonista del dipinto. Ogni interpretazione oscilla intorno alla sua figura di dio che è impegnato nel dipingere farfalle e non nota, o non vuole notare, il mondo che scorre intorno a lui. O non è forse il gesto di silenzio di Mercurio a costruire la narrazione dell’opera? Dosso Dossi si è ispirato agli Emblemata di Andrea Alciati, umanista italiano. Il suo Emblematarum Liber, pubblicato per la prima volta in Italia, è una raccolta di epigrammi, ovvero brevi componimenti poetici, basati su iscrizioni antiche e con incisioni che illustrano testi singoli. Nella prefazione di questo piccolo libro Alciati descrive gli emblemi come un divertimento per gli umanisti fondato sulla cultura classica. Alcuni emblemi indicano una chiara ispirazione. Il gesto del silenzio di Mercurio è stato con molta probabilità ispirato dalle strofe e dalla xilografia In Silentium, in cui il dito del saggio portato alle labbra invita lo stolto a trasformarsi in Arpocrate di Faro (l’isola ad Alessandria d’Egitto). Arpocrate, in qualità di una delle rappresentazioni del dio Horus del periodo tolemaico e romano in Egitto, fu venerato in Grecia e a Roma come dio del silenzio. Gli antichi Greci e Romani hanno però decifrato erroneamente i geroglifici egizi, perché oggi sappiamo che il gesto del silenzio nell’iconografia egiziana identificava l’infanzia (Horus = bambino). Al dipinto possono essere associati alcuni altri emblemi, ma il silenzio diventa in tale opera un messaggio significativo.
La lamentela della Virtù diventa irrilevante. La creazione del mondo viene messa da parte. La cosa più importante è restare in silenzio. Se ci si riesce a contemplare il dipinto in pace, l’equilibrio tra un’attività apparentemente inutile, resta preservata. Dosso Dossi ha dipinto nel quadro il momento di tacitamento della Virtù da parte di Mercurio. Giove è altrimenti occupato, dipinge farfalle. Non si può disturbare il padre degli dei in un’attività così importante. Dite che è divertente? Non credo. Potete immaginare un mondo senza farfalle?
traduzione it: Massimiliano Soffiati