A centosessant’anni dalla sua nascita, intorno a Gabriele D’Annunzio si raccontano ancora molte leggende legate più al “personaggio” che alle verità storico-letterarie di cui fu protagonista lo “scrittore”.
Le leggende maturate intorno al suo nome, spesso, trovavano origine proprio nelle sue fantasiose invenzioni: al pubblico francese dichiarava, ad esempio, di essere nato <<a bordo del Brigantino Irene>>, in mezzo al mare Adriatico in una notte tempestosa, sotto il segno dell’Ariete “durocozzante”. Ma non era vero niente, Gabriele nacque come tutti i bambini di allora in casa, e il diffi cile parto di sua madre Luisa de Benedictis avvenne in un palazzetto signorile di Pescara, in Abruzzo, alle 8 del mattino del 12 marzo 1863, quindi sotto il segno dei Pesci. Suo padre era Francesco Paolo, possidente e poi sindaco della città adriatica e avrà con l’illustre figlio rapporti non sempre sereni.
Abruzzese quindi, Gabriele, e l’amata sua terra natìa rivivrà in molte sue pagine poetiche, narrative e drammaturgiche: «Ah, perché non son io co’ miei pastori?» scriverà in una poesia tra le più belle di Alcyone, la sua raccolta poetica del 1903, e poi «Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali», nel Libro segreto del 1935: non rinnegò mai le sue origini, neppure quando, dopo gli studi liceali compiuti a Prato presso il glorioso collegio nazionale Cicognini, a 19 anni si trasferirà nella Capitale, diventando un brillante cronista della mondanità capitolina, prima, un grande narratore e poeta, poi, infine l’arbiter elegantiarum della società romana dell’epoca.
Ma questo giovane abruzzese inurbato, sempre agghindato e azzimato come un principe rinascimentale (arrivò a possedere un guardaroba sterminato che comprendeva, tra l’altro, 50 soprabiti, 200 paia di scarpe e 500 cravatte), con la sua parola ed il suo modo di fare elegante e seducente conquisterà il mondo: provocherà la follia nelle donne da lui sedotte e l’esaltazione nei soldati, idolatrato e detestato, sfi dato e imitato, invidiato da quasi tutti i suoi colleghi scrittori e intellettuali per il successo popolare conseguito, vivrà tra ozii lussuosi e debiti clamorosi, in un’esistenza inimitabile da “Principe del Rinascimento”.
Controverso, contraddittorio a volte, discusso e perfino discutibile come personaggio, fu invece indiscutibile il grande contributo apportato alla storia della letteratura tra Otto e Novecento, arrivando ad aprire le strade, sia nella prosa, sia nella poesia e nel teatro, ma anche nel cinema e nel giornalismo, della più autentica e valida modernità novecentesca che lo fece interprete ed anticipatore di tutte le correnti e stili artistici del secolo nuovo.
Talvolta gli “capitò” anche di rubare idee e versi a poeti e intellettuali, italiani o stranieri, segnatamente francesi, ma seppe restituirli con incomparabile maestria: Joyce, Musil, von Hoffmansthal, Proust lo ammirarono incondizionatamente, l’intero panorama della prosa e della poesia italiana del Novecento gli fu debitore.
A D’Annunzio, infatti, si devono opere immortali, conosciute e tradotte in tutte le lingue: romanzi (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte, Il fuoco), novelle (Terra vergine, Le novelle della Pescara), tragedie teatrali (La città morta, La figlia di Iorio, La fi accola sotto il moggio), fi no ad arrivare al Notturno, un apparente memoriale di guerra e invece un’opera straordinaria di esplorazione dell’ombra della coscienza e della memoria, che farà scuola a molti scrittori successivi sia per lo stile, sia per il linguaggio, sia per il tema.
E valgano le stesse considerazioni anche per la sua ampia produzione poetica: dalla sua prima raccolta, Primo Vere, scritta da adolescente, fi no alle Laudi, dove sono raccolte tra le liriche più belle della storia della poesia italiana (La pioggia nel pineto, tra tutte), con le quali ha saputo traghettare la poesia dei secoli passati, irrigidita dentro forme classiche ormai logore, verso la poesia libera da schemi e metri, ma ricca di sonorità foniche e fonematiche, della più alta produzione novecentesca.
Lo stile di D’Annunzio, sia in prosa sia in poesia, fu davvero inimitabile e personalissimo: parole nuove o ripescate dalla tradizione, rese sonore e luminose da inattesi accostamenti, ritmi studiati per riprodurre emozioni, giri di frasi come sculture morbide e seducenti oppure spigolose e taglienti. Pennellate lampeggianti, ricchissime coloriture, manipolazione incantata di luci e ombre, un’armonizzazione musicale sublime. La maestria verbale, la suggestione sensuale, l’inarrivabile uso della parola da lui utilizzata sia per la capacità evocativa che per la pertinenza semantica, costituiscono una magia e una malìa da cui è difficile sottrarsi.
Riuscì ad infiammare gli animi e a conquistare migliaia di donne grazie ad un fascino magnetico ed irresistibile. Non fu mai però un buon marito, né un buon padre: troppo tumultuosa la sua esistenza, al cui centro restarono sempre la scrittura, l’arte, la passione per tutto ciò che fosse bello ed elegante. Donne comprese.
Migliaia, si disse, ma poche quelle veramente amate e tutte trasfigurate in Muse, tutte eternate nei suoi capolavori. «Il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini», soleva ripetere, ribadendo quanto il trasporto sentimentale ed erotico fosse propellente necessario alla sua creatività.
Tra le prime sue muse, allora, ci fu Giselda Zucconi, l’amore della sua «adolescenza anelante e furiante», eternata col nome di “Lalla” nella sua seconda raccolta poetica “Canto Novo”, e poi Elvira Fraternali, sposata Leoni, ma amata dal poeta con il nome di “Barbara”, e immortalata nella figura di Ippolita Sanzio del suo romanzo “Il trionfo della morte”. Dopo l’abbandono del Poeta, morirà sola in un pensionato gestito da suore. Nonostante le moltissime amanti, fu sposato con una sola moglie, Maria Hardouin di Gallese, immortalata nella poesia “Peccato di maggio” e che poi gli diede tre fi gli: Mario, Gabriellino e Veniero. Un’altra figlia, Renata, l’ebbe da Maria Gravina Cruyllas Ramacca Anguissola di San Damiano, principessa siciliana che per lui lasciò la famiglia e alla quale dedicò il suo romanzo capolavoro L’innocente.
Tra tutte le muse dannunziane, una però spicca per grandezza e bellezza: Eleonora Duse. Di cinque anni più vecchia di lui, tisica, bisessuale, appassionata e di inarrivabile talento, lo proiettò sull’empireo della drammaturgia europea: fu lei l’ispiratrice di tutti i suoi capolavori teatrali. Lui l’amò senz’altro, ma poi la descrisse impietosamente ne “Il fuoco” e la lasciò comunicandole, spietato: «Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza». Fine di un grande amore.
In realtà, quella fine era dovuta ad una nuova “musa”, la giovane e avvenente Alessandra Starabba di Rudinì, bella e statuaria (che ribattezza “Nike”, come la Nike di Samotracia), la quale, quando sarà da lui abbandonata, fuggirà in Francia, si farà suora, ma conserverà sempre, tra le biografie dei Santi e i libri di preghiera, le audacissime lettere del suo mai dimenticato amante.
E poi via via fino ad uno dei più brucianti amori della sua vita, quella contessa fiorentina, che di nome faceva Giuseppina Giorgi Mancini, ma che lui appellerà “Giusini” nello splendido “Solus ad Solam”, una sorta di struggente diario scritto da Gabriele quando la sua appassionata amante finirà nel gorgo della follia, per arrivare a quella che fu la sua ultima Ninfa Egeria: l’attrice del muto Elena Sangro, nome d’arte della vastese Maria Antonietta Bartoli Avveduti che divenne la protagonista del torrido e senile poemetto “Carmen Votivum”.
Ma il poeta “Vate” non fu solo un grande seduttore e amante; seppe anche lasciare ai posteri la memoria di sé eroe della prima guerra mondiale: dalla Beffa di Buccari al Volo su Vienna durante la Grande Guerra, fino alla straordinaria conquista di Fiume, il 12 Settembre 1919 alla testa di oltre duemila fervorosi combattenti, uomini e donne. Qui scrisse e promulgò la Costituzione (la Carta del Carnaro) più lungimirante dell’epoca, che arrivava a riconoscere ammissibile ogni tipo di amore, ogni cittadino uguale agli altri, alle donne la possibilità di votare e di essere votate.
Fu fervente nazionalista, irredentista, monarchico: difficile, però definire il suo contraddittorio rapporto con Mussolini e con il fascismo. Fu quest’ultimo, semmai, ad ispirarsi a D’Annunzio e, specialmente, al dannunzianesimo fiumano adottando pose e mode, miti e modi del Comandante di Fiume.
Chiusa l’esperienza di Fiume in un tragico Natale di sangue del 1920, si ritirò a Villa Cargnacco sul Lago di Garda, dimora di campagna appartenuta a Henry Thode e che, trasformata e trasfigurata, diventerà il celebre e celebrato Vittoriale degli Italiani: l’ultima sua opera d’arte, “libro di pietre vive”, ancora oggi monumento nazionale al suo genio e alla sua indomita personalità. Lì, al Vittoriale degli italiani, tra viuzze, slarghi, piazzette e meravigliosi giardini interamente pensati da Gabriele D’Annunzio e realizzati dall’architetto Maroni, l’anziano e ormai stanco poeta fu risucchiato in un gorgo erotico senza fine, vittima di un predace e patetico delirio sessuale. E nella ubriacatura orgiastica degli ultimi anni una giovane donna spicca su tutte: la Contessa Scapinelli Morasso, “Titti”, “l’ultima Clematide”, fresca e splendente creatura, che gli destò un ultimo singulto d’amore.
Gabriele D’Annunzio, il vate, l’eroe, l’amante, il venturiero, l’artifex immaginifico di capolavori e di vite inimitabili, morirà di lì a poco, per ictus cerebrale, alle 20,05 del 1° marzo 1938 (ultimo giorno di Carnevale), ottantacinque anni fa, mentre eraintento a «capolavorare» alla sua scrivania.
foto: per gentile concessione della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani