Ricordo perfettamente quando tempo fa qualcuno che conoscevo mi raccontò dei suoi viaggi di lavoro a Milano. A quel tempo mi sembrava che non ci sarei mai andato, in fondo perché avrei dovuto? Ho sentito dire che è la città del successo, del business. Qualcosa so su di essa, ma non troppo. Mi pare di aver anche sentito dire che coloro che amano la Campania, o i cipressi nei dintorni di Siena, non hanno motivo di visitare il capoluogo lombardo.
Milano si ama o si odia. L’opposizione stabilita sociologicamente e storicamente tra il Nord e il Sud è espressa al meglio dalla percezione di questa città come simbolo della ricchezza dell’Italia: lusso, grandi fatturati, industria, moda, carriere televisive, aria inquinata, di cui ha scritto Umberto Eco, in contrasto con il carattere intellettuale della città (a proposito, questo testo viene scritto quando, relativamente all’inquinamento dell’aria, Varsavia supera Milano di un punto, mentre la città italiana ha un punto in più rispetto a Cracovia). Si può supporre che il ricco Nord lotti contro la mancanza di attrazioni turistiche all’altezza di Roma e Firenze, ma se si prende in considerazione il tenore di vita, vedrei piuttosto un esodo di romani annoiati verso la Lombardia che viceversa. Joanna Ugniewska ha scritto nel suo saggio “Siciliani a Milano”: “lo stesso sentiero è stato percorso nel XX secolo, tra gli altri, da Elio Vittorini, Vincenzo Consolo, Matteo Collura, che sono diventati milanesi per scelta; tuttavia tornano costantemente, attraverso i loro scritti, in Sicilia […]”, spiegando il tentativo di liberarsi dal marasma del meridione. Milano è, in primo luogo, una città che, in misura minore rispetto ad altre, vive nel passato e, in secondo luogo, ogni persona che arriva qui, per un tempo più o meno lungo, deve trovare la propria strada da seguire. Più di tutti mi interessava lo “spirito” di questa creazione urbanistica finanziaria-commerciale “carnale” e la sua cultura. Il più delle volte si rivela che le cose più interessanti sorgono al bivio di questi due ambiti, e cercarne gli spazi comuni è molto affascinante.
Uno degli esempi più chiari di conciliazione della vita prosaica con quella poetica è l’edificio di via Mozart 14. Attraversare il cancello di questa piccola oasi nel mezzo della rumorosa metropoli ha un effetto calmante. Villa Necchi Campiglio è un’antica dimora di ricchi industriali milanesi progettata negli anni Trenta del XX secolo da Piero Portaluppi, un architetto che può essere considerato il simbolo della creazione della Milano modernista. Per capire quanto fossero grandi queste ambizioni, basta osservare un altro edificio progettato da lui, il Palazzo della società Buonarroti-Carpaccio-Giotto. Tornando alla Villa, la famiglia Necchi Campiglio non ha badato a spese per l’arredamento della dimora: struttura modernista semplice e bella, materiali di alta qualità, un enfilade di stanze diversificate, a volte allontanandosi dalla tradizione modernista con il gusto classico. Stupende impiallacciature in noce, una biblioteca, massicce porte geometriche molto originali, sulle pareti i quadri, tra gli altri, di Giorgio de Chirico (a proposito, verso la fine del 2019 si è potuta ammirare la meravigliosa, ricca e varia retrospettiva dei suoi lavori al Palazzo Reale di Milano). Villa Necchi Campiglio era un luogo immerso nella leggenda già durante la vita di questa famiglia, composta da Angelo Campiglio, dalla moglie Gigina Necchi e dalla cognata Nedda. Nella percezione internazionale l’edificio si è affermato come un luogo di azione o addirittura come una sorta di protagonista nel film di Luca Guadagnino del 2009 “Io sono l’amore”, che vedeva come protagonista Tilda Swinton, e la cui storia è stata ampiamente ispirata dalla famiglia di industriali milanesi. Vale senza dubbio la pena osservare sia l’arredamento sia i vestiti lasciati nei guardaroba e gli accessori quotidiani. Infatti era questa la condizione di Gigina, morta nel 2001 senza avere figli, per aprire qui un museo.
A Milano ci si può facilmente muovere a piedi tra i luoghi di cui parlo, sebbene la vasta rete metropolitana possa amplificare il senso delle distanze. Solamente a poche centinaia di metri dalla già citata Villa Necchi Campiglio si trova il Museo Bagatti Valsecchi. Nel 2019 è stato celebrato il 25° anniversario dalla sua apertura ed è proprio in quel periodo che ci sono stato. Questo edificio è molto diverso dalla villa descritta poc’anzi. È stato costruito negli anni Ottanta del XIX secolo ed anche dietro ad esso si cela una storia familiare. Due fratelli, i baroni Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, decisero a proprie spese, e senza doversi preoccupare dei fondi, di ricreare gli interni residenziali dell’epoca moderna (XV-XVI secolo), che furono utilizzati per scopi abitativi anche negli anni a loro contemporanei. Per quanto ne so, i loro discendenti vivono tuttora nel capoluogo lombardo. Gli interni sono impressionanti, sono l’esempio di un perfetto stile di arredamento storico, una prova di gusto progettuale, una grande sfida portata a termine con successo, nata dall’amore per i secoli passati. I due fratelli collezionarono opere d’arte dell’epoca, arredi interni (per esempio, un caminetto), oggetti di uso quotidiano. Al suo interno si trova anche un’armeria. Si ha l’impressione di stare in un vero palazzo rinascimentale, anche se non è così. Questo museo non ha eguali. Usciamo da lì convinti di esserci trovati in una dimora del XVI secolo.
Dietro l’angolo, in direzione della Scala, si trova il Museo Poldi Pezzoli, aperto al pubblico dal 1881. Al suo interno si trova una raffinata collezione di dipinti, la cui osservazione è invogliata dal profilo femminile del pennello di Antonio del Pollaiolo. Sono esposte inoltre opere di Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Botticelli, Moroni e Hayez. Gian Giacomo Poldi Pezzoli cominciò a raccogliere la sua collezione in età molto giovane, la sua struttura trasmessa dai suoi eredi continua a crescere, e lo stabilimento è oggi parte di una rete chiamata “Case Museo di Milano”. Ne fa parte anche la Casa Boschi di Stefano, situata non lontano dalla stazione centrale, che a sua volta ospita opere d’arte moderna.
Quando si è a Milano vale sempre la pena di vedere Brera, situata nel quartiere omonimo, una collezione d’arte di livello mondiale che è facilmente raggiungibile partendo dal Museo Bagatti Valsecchi e Museo Poldi Pezzoli e passando per via Borgonuovo e via Oscuri. Sono stato in questo museo diverse volte e ammetto che ogni volta non smetto di meravigliarmi di quanti capolavori di valore e grandi nomi siano qui riuniti: Bellini, Tintoretto, Mantegna, lo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello (è la sala più bella, al cui interno ci sono altre due opere: “Pala di Brera” di Piero della Francesca e “Cristo alla colonna” di Donato Bramante). La collezione comprende anche opere del XIX secolo e contemporanee. Un angolo molto interessante è l’”aperto” laboratorio di conservazione.
Il museo originariamente ospitava l’Accademia della Belle Arti, fondata nel 1776. La pinacoteca è stata aperta al pubblico durante l’epoca napoleonica. La separazione dall’accademia e la sistemazione delle opere d’arte fu fatta alla fine del XIX secolo. Non sarei stato io se non avessi dato un’occhiata ai corridoi al piano terra della scuola. Era proprio ottobre, quando tra i freschi bozzetti degli studenti trovai la strada per la sala dove si teneva una conferenza sull’arte di Giotto. Ammetto che non ci sarei dovuto andare, non essendo una conferenza aperta al pubblico…
Per non contraddire la mia stessa tesi che Milano non vive nel passato, devo scrivere che vale la pena di andare al Parco Biblioteca degli Alberi, dove si può osservare, tra le altre cose, lo splendido e audace Bosco Verticale, due famosi grattacieli densamente ricoperti di vegetazione. Se abbiamo un po’ di tempo, beviamoci un caffè al Bar Luce e andiamo a vedere la Fondazione Prada (a due passi da Porta Romana), e la sera regaliamoci una passeggiata sui Navigli anche se, ammetto, qui non c’è molto da vedere e non vado matto per questo posto. Forse perché Milano non è affatto una bella città, o lo è? Non è facile ritrovarsi nel caos dei trasporti pubblici di Milano, eppure, c’è qualcosa di più bello del percorso del vecchio tram giallo numero 1 che passa vicino al Castello, lungo il viale alberato? È un trucco del capoluogo lombardo per far innamorare i turisti.
* Flaneuring deriva da Flâneur termine francese, reso celebre dal poeta Charles Baudelaire, che indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta, sperimentando e provando emozioni nell’osservare il paesaggio.
foto: Dawid Dziedziczak
traduzione it: Myriam Kedzierski