Passeggiando sotto le mura del Wavel — l’imponente Castello Reale di Cracovia — è impossibile non imbattersi nel buio ingresso di una grotta. Una macchia arruffata di alberi la cela parzialmente e una statua ne fa da guardiano: annerita, ruvida d’aspetto, raffigura un drago rampante. È Smok Wawelski, il Drago di Wavel. Con le sue sei zampe e il respiro infuocato, la statua è una delle icone della città.
Figure dense di significati, ancora oggi i draghi popolano l’immaginario collettivo di oriente e occidente. Eppure, per quanto antichi, persino loro risentono dei tempi moderni, di una società segnata dai cambiamenti climatici, dai conflitti e dal progresso scientifico.
Ne abbiamo parlato con Michele Bellone, autore di Incanto. Storie di draghi, stregoni e scienziati, comunicatore della scienza e curatore editoriale della sezione saggistica per Codice Edizioni. Ci ha raccontato il ruolo che queste creature leggendarie hanno oggi nel mondo scientifico.
Un drago, tanti draghi
Una premessa è doverosa. Dobbiamo parlare di draghi, al plurale, per ricordare le molte forme che hanno assunto nell’araldica, nei miti antichi e nella storia dell’arte: forme che hanno reso pressoché impossibile realizzarne una tassonomia univoca.
«Prendete il celebre dipinto San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lì, il drago raffigurato ha quattro arti – due ali e due zampe – e non sei, come emerge da tante rappresentazioni storiche e artistiche. Ma chi, come me, è amante dei giochi di ruolo, sa bene che sono le viverne ad avere quattro arti, non i draghi. Eppure, quello ritratto da Paolo Uccello era un drago, come pure quelli del Trono di Spade, anch’essi dotati di quattro arti», racconta Bellone.
«Posso fare un altro esempio, sempre riferito all’Italia. El bisson, ossia il Biscione milanese, simbolo storico della casata dei Visconti e poi della città di Milano – ripreso in molti altri stemmi, da quello dell’Alfa Romeo all’Inter – pare sia stato ispirato dalla raffigurazione del drago Tarantasio, che secondo le leggende abitava un antico lago nei pressi di Lodi».
In una delle sue rappresentazioni iconiche, Tarantasio aveva due piccole ali, due zampe e un lungo corpo strisciante, simile appunto a quello di un serpente. «In effetti, i draghi dell’immaginario italiano tendono a essere raffigurati più come creature paludose e serpentesche che non come i draghi centro-nord europei. Loro sì, più simili a quelli diventati famosi grazie al cinema.»
Il filo conduttore che unisce la tradizione europea è semmai il vedere nei draghi dei grandi rettili. Anche in questo caso, però, il panorama globale è più variopinto: «I draghi della tradizione orientale mescolano parti di pesci, mammiferi e rettili: non sono mostri maligni, bensì una rappresentazione composita di molte specie diverse simboleggiante le forze naturali. Mentre nell’America centrale vengono rappresentati come giganteschi serpenti piumati, come il famoso Quetzalcoatl».
Draghi al servizio della scienza
Questo caos di forme anatomiche è fondamentale per iniziare a capire un possibile ruolo dei draghi nel mondo scientifico: essere uno splendido caso studio immaginario. Bellone fa un esempio: «Nel 1976, il biologo dell’Università di York Peter J. Hogarth, pubblicò un articolo sul Bullettin of British Ecological Society nel quale prendeva in considerazioni diversi aspetti dell’ecologia e dell’anatomia dei draghi, proponendo un’analisi critica alla luce degli studi darwiniani sull’evoluzione».Qualche mese dopo gli rispose il collega Robert M. May sulla celebre rivista Nature. Il professore di Oxford fece notare che, nella sua analisi, non aveva considerato un aspetto. Se si guarda all’evoluzione dei vertebrati terresti, uno dei tratti più conservati nel tempo è la morfologia tetrapode, cioè basata su quattro arti. I draghi però, contando le ali, ne hanno sei. «Se esistesse una linea evolutiva esapode, vorrebbe dire che i draghi sono più imparentati con il pegaso che con i rettili, e il pegaso sarebbe più imparentato con loro che non con un unicorno o un normale cavallo». La somiglianza tra draghi e viverne a quel punto diventerebbe un fenomeno noto come evoluzione convergente: rami diversi dell’albero della vita sviluppano tratti simili quando occupano nicchie ecologiche affini.
Si tratta di un gioco, ovviamente. Ma è un gioco prezioso per chi si occupa di evoluzione.
La biodiversità dietro i draghi
I draghi però non rappresentano solamente un caso studio utile a mettere alla prova i nostri criteri di classificazione. Immaginare come potrebbero muoversi, volare o sputare fuoco se esistessero realmente è un’ottima scusa per indagare le soluzioni che la biodiversità ha prodotto per ottenere risultati simili.
In Incanto, Bellone ne cita uno particolarmente sorprendente: i Brachininae. Si tratta di una famiglia di insetti comunemente nota come coleotteri bombardieri. Quando minacciati, questi animali sono in grado di emettere un getto di liquido rovente, ottenuto grazie a una miscela di enzimi, perossido di idrogeno e idrochinone che, combinati, portano la reazione a una temperatura molto elevata. Sono insetti a livello di qualsiasi drago sputafuoco, con il pregio di esistere davvero!
Il rapporto tra draghi e biodiversità non è unilaterale. «Un conto è se devi raffigurare un drago in un’immagine statica, un altro è se devi farlo muovere in maniera realistica, come in un film o in una serie. A quel punto gli animali che già esistono sono un’ottima fonte di ispirazione per chi deve costruire una figura animata al computer». Uccelli e pipistrelli sono i modelli migliori.
Scrive Bellone nel suo libro: «Gli artisti digitali di Pixomondo, coinvolti nella realizzazione dei draghi del Trono di Spade, hanno studiato l’anatomia delle ali dei polli per capirne i limiti meccanici, mentre per simulare il decollo di Drogon hanno preso spunto dai pellicani.» (p.40)
Draghi come metafore
Draghi al servizio delle scienze naturali, dunque, ma anche draghi per la biodiversità e draghi come metafore del mondo contemporaneo. «Nel 2015, sempre Robert May — deve essersi appassionato al tema, evidentemente — insieme a Andrew Hamilton e Edward Waters, per un primo di aprile, pubblicarono un articolo su Nature in cui usavano i draghi per parlare dei cambiamenti climatici.»
L’articolo, ovviamente umoristico, correlava il trend delle temperature globali a quello delle menzioni di draghi nella letteratura, sostenendo che chiaramente i fenomeni dovevano essere legati tra loro. Temperature più calde: più draghi avvistati. Che occorra limitare le emissioni prima che se ne risveglino troppi?
I draghi però non sono metafore potenti solo per la scienza. «Uno dei miei draghi preferiti in assoluto» racconta Bellone «non è un drago in senso classico. Compare nel romanzo di Michael Swanwick, Cuore d’acciaio, dove i draghi sono l’equivalente dei nostri cacciabombardieri: macchine costruite in fabbrica, dotate di missili e bombe, ma caratterizzate da una personalità, spesso arrogante e distruttiva». Una metafora delle idee di dominio e distruzione che imprimiamo nella tecnologia intorno a noi.
Smok Wawelski
Si dice che il Drago di Cracovia fu sconfitto da un calzolaio che, astutamente, gli fece trovare una pecora riempita di zolfo. Il bruciore alla gola e alla pancia che seguirono indussero la bestia a raggiungere la Vistola per dissetarsi, ingollando acqua fino ad esplodere. Una leggenda simile ad altre che, nei secoli, hanno popolato di draghi l’intera l’Europa orientale.
Il mostro è dunque morto. Oggi rimane una statua attorno a cui si accalcano i bambini. Rimane anche l’immagine del drago come simbolo di cultura, tradizione e, come abbiamo visto, anche di scienza. Perciò, in futuro, quando vedrete un drago, ricordatevi di contare quante zampe possiede.