Dante, dalla Torre di Babele al volgare illustre

0
8488

Fra il 1303 ed il 1304 Dante Alighieri, ormai già esiliato dalla sua Firenze, sente la necessità di progettare, destinandolo ad un pubblico “specialistico”, quello dei chierici, cioè dei letterati di professione, un trattato dedicato alla “vulgari eloquentia”, cioè alla retorica in lingua volgare. E sceglie come “lingua” per discettare del volgare proprio quel latino, che – come argomenterà – non viene ritenuto una lingua-madre naturale, ma una grammatica, anzi la “gramatica” per antonomasia, inalterabile strumento convenzionale, creata artificialmente perfetta e per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al di sopra degli idiomi particolari, in quanto prodotto di un’alta elaborazione logica, rigidamente definito e destinato alla comunicazione dei concetti più complessi e difficili del sapere.

D’altronde, per Dante, considerare il latino una lingua non naturale significa essere in linea con l’allora comunemente accettata teoria della monogenesi di tutte le lingue del mondo, che sarebbero derivate dall’idioma di Adamo, la lingua delle Sacre Scritture, destinato a dividersi nelle varie parlate volgari plebee locali a seguito del biblico episodio della Torre di Babele. Dio, infatti, per punire il peccato di presunzione che aveva indotto l’umanità a tentare la scalata al cielo, fece obliare l’originario idioma parlato nell’Eden, stabile e non soggetto a mutamenti, dividendo, con la confusione delle lingue, il genere umano in una pluralità di gruppi linguistici ed etnici non più in grado di capirsi e di comunicare tra loro.

Dante, seguendo il mito sacro, raggruppa così l’umanità in tre diversi ceppi: uno insediato dal Danubio fino all’Inghilterra, che parla un idioma caratterizzato dalla forma affermativa “io”; un altro stabilito nelle regioni orientali e in parte dell’Asia, che parla il greco; e un ultimo stanziato nelle regioni meridionali e occidentali, che si sarebbe andato via via differenziandosi nel corso del tempo e della storia in altre aree, le cui lingue caratterizzanti erano diventate la lingua d’Oc, d’Oui e del Sì, cioè il provenzale, il francese e l’italiano.

A questo punto Dante, guardando idealmente la penisola italiana dall’alto, cioè da nord, ed utilizzando come spartiacque gli Appennini, identifica quattordici dialetti del Sě, mappandone sette a destra, quelli tirrenici, e sette a sinistra, quelli adriatici, costringendoci così a veder capovolto lo stivale geografico, rispetto alla nostra attuale abitudine a pensare l’est a destra e l’ovest a sinistra. Ma, drasticamente, il sommo poeta ritiene che nessuno di essi possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, comune a tutti i letterati italiani; nessuno, compreso lo stesso toscano, che non era oggettivamente considerabile null’altro che “turpiloquium”, al punto da indurre a ritenere “infroniti” (dissennati) coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore.

Con razionale lungimiranza Dante ipotizzava che una lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia solo se ci fosse stata un’unificazione nazionale, perché alla corte del sovrano unico si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano sarebbe nato un idioma che, senza identificarsi con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Ma non essendo politicamente possibile pensare nella sua epoca un’unità, risultava necessario elaborare artisticamente una lingua comune, quello che lui chiamerà “il volgare illustre”, che non poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti e letterati: una lingua, però, solo scritta, non parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango elevate.

Il volgare illustre doveva dunque diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili. In Italia, infatti, Dante ravvisava l’esistenza di “un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, quello che è di ogni città italiana e non appare essere di nessuna, col quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati, ragguagliati”, quella lingua che egli stesso diceva di inseguire e ricercare come una “pantera” che s’aggira “per monti boschivi e pascoli d’Italia”, mandando ovunque il suo profumo, senza apparire in alcun luogo. Anche se non mancava evidentemente nell’Alighieri una implicita consapevolezza della superiorità del proprio volgare, dato che l’unico volgare illustre ch’egli intende veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti (come Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e se stesso), definito “egregio, limpido, perfetto, urbano”.

E così, questa nuova lingua sprovincializzata avrebbe dovuto per Dante possedere le quattro caratteristiche, essere cioè illustre, dando onore e gloria a chi lo usa; cardinale, fungendo da “cardine”, attorno al quale far ruotare le minori parlate locali; aulico, risultando degno d’essere ascoltato in una corte regale, in una “aula” appunto; ed infine curiale, adatto all’uso di un’assemblea legislativa o di un senato. Un’unica corte regale e un unico senato ancora l’Italia non li aveva, però le forze intellettuali, secondo l’Alighieri, costituivano potenzialmente la curia imperialculturale d’Italia. Non solo: anche nell’uso del volgare letterario sarebbero valse le norme della retorica del tempo, distinguendosi lo stile elevato tragico (proprio della canzone) che può trattare gli argomenti più significativi (come la prodezza delle armi, l’amore e la rettitudine), dallo stile medio o comico (che si addice alla ballata e al sonetto) e da quello umile o allegorico. E con il “Convivio” prima e con la “Commedia” poi il sommo poeta darà proprio concreta prova di ciò, applicando quel che nel “De vulgari eloquentia” aveva teorizzato.

Ma forse Dante aveva visto con troppo anticipo la storia: infatti nel corso del Quattrocento si perse memoria del suo avveniristico trattato, che sopravviveva in pochissimi esemplari, e quando nel 1529 Gian Giorgio Trissino lo ripropose in una sua traduzione alla pubblica opinione molti sostennero che Dante non avrebbe mai potuto scrivere un’opera come il “De vulgari eloquentia”, accusando addirittura il Trissino di mistificazione.