Che Dante sia il padre della lingua italiana parrebbe essere dato assodato e del tutto indiscusso, eppure – forse proprio per la straordinaria qualità ed originalità della sua produzione letteraria – la sua primazia spesso non è stata adeguatamente riconosciuta. Infatti, sin da Petrarca, nei confronti di Dante s’è palesato un atteggiamento censorio, contraddistinto da un falso disinteresse sottovalutativo: al punto che il poeta del Canzoniere arrivò a negare addirittura di aver mai letto i versi in volgare dell’Alighieri, nonostante evidentissimo sia invece stato l’influsso dantesco tanto nelle liriche del Canzoniere quanto ancor più nei Trionfi.
Ma simile sottostima del sommo vate fu praticata anche in altro campo, quello linguistico, pure da Alessandro Manzoni, che – in una polemica, volutamente tenuta riservata, con Ruggero Bonghi, avvenuta ai tempi della stesura della famosa relazione al ministro della pubblica istruzione del nuovo Regno d’Italia intitolata “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla” – spiegava sussiegoso il motivo della mancanza di cenno alcuno al “De vulgari eloquentia” (il celebre trattato in latino di Dante sulla questione della lingua scritto nei primi anni del Trecento), asserendo che nel testo dantesco “non si tratta di lingua italiana né punto né poco”. Perché per Manzoni la “lingua italiana” doveva essere un qualcosa di nazionale, mentre Dante non avrebbe avuto in mente una “lingua nazionale”, ma semplicemente la valorizzazione di tutti i volgari illustri rispetto al latino. Secondo l’autore dei “Promessi Sposi”, nessun uomo di buon senso avrebbe mai considerato “lingua nazionale” un volgare dalle caratteristiche indicate da Dante; anzi, addirittura, per Manzoni nel “De vulgari eloquentia” non si sarebbe parlato affatto di “lingua”, né italiana né straniera, giungendo ad affermare che chi pensa il contrario è solo perché quel trattato non l’ha mai letto.
In realtà è evidente che ai tempi di Dante non potevano esserci i presupposti di una lingua nazionale, data la divisione del territorio in così tanti piccoli stati contrapposti; cosa di cui Dante stesso era ben consapevole: e forse per questo l’Alighieri s’era limitato ad affrontare il problema per vie traverse, facendo sostanzialmente capire, con un immediato sillogismo, che se il volgare più illustre era quello della sua Commedia, e lui era fiorentino, ne conseguiva che la lingua migliore fosse appunto quella fiorentina. Cosa che poi sarà creduta e confermata dallo stesso Manzoni, che non per niente deciderà di riscrivere il suo romanzo sciacquando i panni proprio in Arno.
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