disegno di: Luca Laca Montagliani
“Vuoi un altro po’ di dolce?”, mi chiede la bella e dolce padrona di casa in una fredda sera varsaviana. “Dziekuje! (grazie!)” rispondo raggiante. E lei gelidamente voltando lo sguardo altrove si allontana offrendo il dolce ad un’altra persona. Nella piccola guida di sopravvivenza di un italiano in Polonia bisogna segnarsi anche questo. Ovvero se qualcuno vi offre qualcosa la risposta italiana “grazie”, che nel Bel Paese equivale al ringraziamento per aver volentieri accettato quello che vi viene offerto, corrisponde in Polonia a “no, grazie non voglio”. Quindi immaginate l’espressione di delusione dipinta sul mio volto quando, ancora alle prime armi con le usanze polacche, davanti ad una succulenta proposta di una seconda porzione di Charlotka ho risposto entusiasticamente “grazie!” con il risultato di vedermi sfilare sotto il naso l’ultima fetta di torta finita nel piatto della persona che avevo al mio fianco! Diciamo la verità le incoerenze tra usi e costumi, italiani e polacchi, sono un automatico generatore di situazioni al limite del ridicolo. Per un italiano i modi polacchi sono una scuola di psicologia sociale e sicuramente anche una quotidiana occasione per allenare l’autocontrollo. Facciamo un esempio, l’italiano che entra in un bar ha un obiettivo chiaro: ordinare e ottenere l’ordinazione nel più breve tempo possibile. Quindi la strategia è: 1) percorrere a passo rapido la linea retta più breve tra la porta e la cassa; 2) sfruttare l’ampio panorama di frasi e gesti, di cui il DNA italico abbonda, per ottenere l’attenzione della cassiera e ordinare prima di chi ci sta di fianco o davanti. Questo naturalmente è l’approccio “lento” ovvero quello cui siamo obbligati quando entriamo in un bar dove non ci conoscono. Se invece ci conoscono allora applichiamo l’approccio comunicativo “veloce”, ovvero pretendiamo – cosa assolutamente possibile in Italia, ma azione piuttosto temeraria in Polonia – che già dal ciglio dell’entrata, incrociando lo sguardo della cassiera o della cameriera, basti una nostra espressione concludente per far capire cosa vogliamo. Anch’io, inevitabilmente intriso di tale back ground culturale, ho impiegato un po’ di tempo per capire il motivo dello stupore della cassiera polacca al mio presentarmi dritto davanti a lei chiedendo con temperamento frettoloso, e qualche zloty in mano, un caffè. Solo alla quarta o quinta volta mi sono ahimè reso conto che di fianco alla persona che mi stava davanti alla cassa, l’unica che pensavo mi precedesse, c’era un’ordinata fila di clienti in attesa ZEN lungo il bancone del loro turno. Clienti che mi guardavano con lo stesso stupore della cassiera. Sì ammetto la nostra impazienza italica è proverbiale ma allo stesso tempo è leggendaria anche la scarsa empatia dei camerieri polacchi. In centro a Varsavia, per alcuni mesi, mi è capitato di andare allo stesso bar, alla stessa ora, ordinando le medesime cose (caffè e croissant), alle stesse 2 cameriere che si alternavano. Risultato: dal primo all’ultimo giorno mi hanno guardato come fosse sempre la prima volta che entravo in quel bar e neppure la ripetitività della mia ordinazione ha aiutato, ero e sono rimasto uno perfetto sconosciuto. Ma spesso mi domando se in realtà tali incomprensioni siano veramente involontarie. Ho spesso la sensazione che dietro i canoni delle formalità verbali e comportamentali polacche ci sia un sottile gioco ironico. Nel frattempo in attesa di approfondire il tema ci ha pensato mia figlia Matilde a darmi una lezione di humor nordico. Seppur totalmente a digiuno dell’idioma polacco Matilde, tornata a Venezia dopo una settimana a Varsavia, maneggiava già con sicurezza le quattro parole imparate. “Matilde ti sei preparata per l’interrogazione di storia?”, chiedo paternamente. “No”, risponde seccamente. “Come no???” ribatto già infuriato. “No, tak, tato! (sì certo papà)” risponde sorniona.