Come il caffè è diventato espresso

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foto: Katya Czarnecka, Andrea Solveni

Fra i prodotti sinonimo di italianità vi è sicuramente il caffè, o per meglio dire il suo metodo di preparazione, universalmente noto come “espresso”, diffuso a livello mondiale a partire dagli anni ’60. Perché all’Italia si associa una bevanda, prodotta dalla lavorazione dei semi di una pianta originaria degli altopiani etiopici? Quanto è stato lungo il cammino per arrivare a quello che definiamo “espresso”? È quello che proviamo a descrivere in questo articolo ripercorrendo le principali tappe della diffusione di questa che è fra le bevande più consumate al mondo e la cui coltivazione è diffusa in molti paesi tropicali. Le prime notizie relative alla scoperta della pianta del caffè e soprattutto alle caratteristiche per la quale oggi è nota, sono tramandate da alcune leggende. La più accreditata, è quella, diffusa da un frate cristiano maronita, insegnante di lingue orientali a Roma e poi a Parigi, Antonio Fusto Naironi, secondo la quale un pastore di nome Kaldi pascolando il suo gregge sugli altopiani del sud dell’Etiopia, nella regione di Kaffa, notò l’irrequietezza delle sue capre ogni volta che si nutrivano dei semi di una  pianta dalla forma rotonda e dal colore brillante.

Kawa po turecku/Caffè alla turca

Incuriosito, anche lui volle provarne e sentendosi rinvigorito da questo cibo, e ne volle portare ai sacerdoti di un vicino tempio che, diffidando del suo racconto, gettarono i semi nel fuoco per bruciarli, ma questi emanarono un aroma piacevolissimo che li convinse a raccoglierli sperimentando la loro infusione in acqua bollente.

La bevanda così prodotta era piacevole e, come detto loro detto dal pastore, aveva un effetto energizzante al punto che presero l’abitudine di usarla durante le liturgie notturne di preghiera, per tenersi svegli.

La leggenda concorda, peraltro, con le teorie di alcuni studiosi che ritengono come i semi della pianta di cui si cibava il gregge di Kaldi fossero consumati dalle popolazioni degli altopiani etiopici, mescolati a grassi animali, come cibo, soprattutto in occasione di viaggi e spostamenti

La coltivazione della Kaffa, cui fu successivamente attribuito il nome scientifico di Coffea, rimane circoscritta, per molti secoli, negli altopiani dell’Africa Orientale, dove cresceva anche spontaneamente, per poi diffondersi nello Yemen, separato solo da un braccio di mare dalle coste Etiopi (odierna Eritrea), che aveva frequenti contatti con queste popolazioni e ne dovette, probabilmente, subire anche alcune invasione prima dell’anno 1000.

Anche in questa regione la diffusione della Kaffa, il cui nome poi si evolve in lingua araba in “qahva”, e della bevanda prodotta dai suoi semi, pare sia dovuta ad alcuni monaci “sufi”, che praticavano un islamismo ascetico e traevano beneficio, come i loro colleghi etiopi, dalla bevanda, nel corso delle estenuanti veglie di preghiera e nella celebrazione di liturgie che si celebravano anche attraverso la danza.

Certamente il consumo di caffè si propagò dallo Yemen e dal suo porto principale, Moka, all’Arabia e successivamente a tutte le popolazioni di religione islamica, come testimonia una delle tante leggende sulla sua origine, nella quale si narra che una bevanda scura e fumante fosse portata dall’arcangelo Gabriele al profeta Maometto per aiutarlo a superare un momento di malessere e di profonda stanchezza.

I contatti fra le comunità religiose islamiche ed i pellegrinaggi a La Mecca, ai quali allora come oggi partecipano un gran numero fedeli, ebbero, un ruolo fondamentale nella diffusione dei semi di “qahva” che in arabo significa “bevanda energizzante o eccitante”.

Nell’arco di tre secoli, dallo Yemen il consumo di caffè si propaga all’Arabia e raggiunge i paesi del Nord Africa, del vicino Oriente e la Turchia , e fu grazie agli scambi commerciali con alcuni paesi europei, ma soprattutto con Venezia, che si cominciò a diffondere notizia di questa “usanza dei turchi”. Il veneto Prospero Alpini, illustre botanico di Padova e medico personale dell’allora console della Serenissima in Egitto, Giorgio Emo, fu il primo a descrivere le caratteristiche della pianta del caffè e a tramandarcene il primo disegno, nel suo trattato di botanica del 1592, “De plantis Aegypti”, vantando gli usi terapeutici della bevanda ricavata dall’infusione dei suoi semi, dal gusto “amaro come bere cicoria”.

Infatti l’utilizzo iniziale fu quello medicale ed i semi erano difficilmente reperibili, peraltro a costi altissimi, presso gli speziali (gli odierni farmacisti) indicati soprattutto quale antidoto contro i disturbi intestinali.

Pare che siano stati gli studenti dell’Università di Padova, dove l’Alpini insegnò dopo la sua esperienza in Egitto, ad acquistarne i primi quantitativi arrivati a Venezia. Il trattato di Prospero Alpini è di qualche anno successivo alla testimonianza del “balio” Gianfranco Morosini, ambasciatore, della Repubblica di Venezia a Istanbul, che nel 1585 , in una relazione al Senato, descrive la bevanda come “acqua nera bollente che si ricava da un seme, “qahva”, che fa stare l’uomo sveglio” e dava notizia del suo consumo in appositi locali “Qahveh Haneh”, già diffusi in quel periodo ad Istanbul, a modello di quelli già presenti al Cairo, Damasco ed Aleppo, nei quali sostavano cantastorie, ed avventori impegnati in partite di “mangala” (gioco simile agli scacchi ancora oggi molto diffuso in Turchia), il tutto accompagnato da chiacchiere, pettegolezzi e commenti, a volte anche critici nei confronti delle autorità, che periodicamente decretarono la chiusura delle “Qhaveh Haneh”, provvedimenti peraltro di breve durata o, di fatto, ignorati dalla popolazione, per la quale il consumo di caffè e la frequentazione delle “Haneh” era ormai diventata un’abitudine.

Da inizio ‘600 Venezia, grazie agli scambi con l’impero ottomano, diviene il primo porto europeo di arrivo e smistamento dei semi di caffè, che poi proseguivano il viaggio fino ai paesi del Nord Europa, in particolare verso la Germania. Comincia così a diffondersene il consumo grazie anche all’apprendimento delle tecniche per la sua preparazione, abbrustolendo, e mettendo a macerare i semi, a lungo, in acqua bollente “come facevano i turchi”. L’aggiunta di zucchero e spezie per renderne l’aroma ed il sapore più piacevole, pare sia successiva, quando il caffè cominciò ad essere una bevanda “alla moda”, gradualmente soppiantando l’utilizzo medicale indicato dall’Alpini nel suo trattato e, intorno al 1640, comincia a consumarsi, insieme ad altre bevande, nelle “Botteghe delle Acque e dei Ghiacci”.

Nel corso degli anni la conoscenza dell’utilizzo del caffè si diffonde presso le famiglie aristocratiche e benestanti ed anche i luoghi deputati alla mescita della bevanda diventano sempre più raffinati collocandosi nelle zone “bene”, diremmo oggi, della città e, anche se servivano altri tipi di infusi, vengono identificati con la mescita della bevanda che arriva dall’oriente, nascono così i locali chiamati “Caffè”.

L’inizio della diffusione del caffè nei paesi cristiani come avvenuto un paio di secoli prima nei paesi dell’Islam, attira l’attenzione delle gerarchie religiose, a tal punto che a Papa Clemente VII (1595-1605) viene chiesto di proibirne l’uso in quanto bevanda “del diavolo”, ma il Pontefice l’assaggia e ne rimane entusiasta, dicendo che una simile prelibatezza non può essere di esclusivo uso degli “infedeli” e quindi la “battezza”, togliendone il, presunto, imprimatur di Satana.

Come abbiamo visto i locali dove veniva bevuto il caffè sono già presenti a Venezia fin dalla metà del ‘60 , la cui frequentazione è suggerita ai visitatori nelle “guide turistiche” dell’epoca, ma il primo di cui si tramanda il nome è il “Caffè Florian” (il nome originale era “Caffè della Venezia Trionfante”) dal nome del proprietario Floriano Francesconi, aperto nel 1720 che diventò ritrovo alla moda per la borghesia ed i letterati del tempo, ben presto imitato da altri locali simili, in particolare dal “Caffè Quadri”, che da allora ne è il principale concorrente, dal momento che i due locali, meravigliosamente conservati, continuano a tutt’oggi la loro attività , uno di fronte all’altro, sotto i porticati di Piazza San Marco.

I maggiori artisti, letterati e filosofi dell’epoca frequentavano questi ritrovi: Vivaldi, Goethe, Mozart, Rousseau e Carlo Goldoni che appunto titolò una delle sue commedie di maggior successo “La bottega del Caffè”, scritta nel 1750 e ambientata in un Campiello dove la bottega del Caffè diventa osservatorio privilegiato delle vicissitudini dei protagonisti su cui vigila il “caffettiere” Ridolfo, che ha un ruolo decisivo nel ricomporre dissidi coniugali e ricondurre i viziosi sulla retta via.

A partire da Venezia i “caffè” cominciarono a diffondersi anche nelle altre capitali europee, a Parigi il primo fu il “Procope” fondato dal siciliano Francesco Procopio. La nascita del primo “caffè” a Vienna vede protagonista un commerciante o, secondo altri, un ufficiale polacco, Jerzy Franciszek Kolschitzky che, nell’agosto 1683, con la capitale austriaca assediata dall’esercito turco guidato da Kara Mustafa Pasha, fu inviato dal conte von Starhemberg a cercare rinforzi. Kolschitzki, sfruttando la conoscenza di lingua e usi dei turchi riuscì a superare l’assedio. Fu anche grazie al successo della sua sortita che francesi e polacchi, guidati da Giovanni III Sobiesky, misero in fuga gli assedianti. Kolschitzki venne ricompensato con terreni, danari e 500 sacchi lasciati dai turchi che tutti pensavano contenessero mangime per animali. Erano invece bacche di caffè, dei quali Kolschitzky conosceva bene il valore. Aprì quindi un locale ed iniziò a servire la bevanda amara e non filtrata secondo il metodo di preparazione alla turca. Il successo arrivò solo quando iniziò a servire il caffè con l’aggiunta di miele, latte o crema; così i viennesi cominciarono ad amare questa bevanda, decretando il successo del “Den Blauen Flaschen”, la “Fiasca Blu”, il primo caffè di Vienna. Una statua di Kolschitzky ritratto vestito “alla turca” nell’atto di servire un caffè si può ammirare ancor oggi a Vienna, in un palazzo storico, al numero 4 della Kolschitzky Gasse. A lui, nel 2009, fu dedicato anche un francobollo delle Poste Polacche nell’ambito della serie filatelica “Tracce polacche in Europa”. Il crescente consumo del caffè aumentò l’interesse a coltivarlo in altri territori oltre a quelli di origine che vietavano l’esportazione della pianta. Il primo a riuscire nell’impresa, alla fine del ‘600, fu l’olandese Peter Van Der Broke che fece crescere la pianta del caffè nell’Orto Botanico di Amsterdam da dove poi ne iniziò la diffusione nelle colonie olandesi di Giava e Sumatra e quindi nella Guayana olandese, in Centro America. I Francesi ne iniziarono la coltivazione in Martinica a metà ‘700, e così fecero anche Inglesi e Portoghesi nelle rispettive colonie fra il Tropico del Cancro e del Capricorno. L’enorme espansione della coltivazione del caffè provocò una maggiore reperibilità e un minor costo del caffè ampliandone il consumo.

Caffettiera napoletana, fot. Evelina Ussardi

Recarsi al caffè diventa nel frattempo un rito soprattutto per intellettuali e letterati ed è da qui che si diffondono idee di emancipazione e progresso nel secolo dei “lumi”. Ne è testimonianza il nome, “Il Caffè’’, dato da Pietro Verri alla rivista che ideò nel 1764, volendo sottolinearne la varietà degli argomenti trattati: dalle lettere, alle scienze, alla filosofia, ed alla quale collaborò, fra gli altri, anche Cesare Beccaria, autore “Dei Delitti e delle Pene”, trattato nel quale si contestava, per la prima volta, l’utilizzo delle pene di morte. Siamo ormai nella seconda metà del ‘700 e nella nostra, necessariamente sommaria, panoramica sulla diffusione del caffè non abbiamo ancora menzionato Napoli, all’epoca una delle città più popolose d‘Europa, dove il consumo del caffè si diffuse più tardi rispetto alle altre capitali, grazie a Maria Carolina d’Asburgo, sposa di Ferdinando IV che lo fece servire, nel 1771, nel corso di un ballo alla reggia di Caserta.

Moka, fot. Magda Zbrzeska

Dall’utilizzo a corte a quello popolare il passo fu breve, grazie anche alla circolazione di alcuni “pamphlet” sull’utilizzo del caffè e del cacao, nei quali si smentiva la teoria che il consumo di caffè portasse sfortuna e fosse una “diavoleria”.

Quando il caffè cominciò a diffondersi nei paesi cristiani attirò l’attenzione delle gerarchie religiose, a tal punto che a Papa Clemente VII (1595-1605) venne chiesto di proibirne l’uso in quanto bevanda “del diavolo”, ma il Pontefice l’assaggiò, ne rimane entusiasta e disse che una simile prelibatezza non poteva essere di esclusivo uso degli “infedeli” e quindi la “battezzò”, togliendone il, presunto, imprimatur di Satana.

È ad inizio ‘800 che Napoli adotta il caffè, la cui moda si deve anche all’invenzione di uno stagnino parigino, Jean Louis Morize, che nel 1819 fabbrica una caffettiera di latta in cima alla quale incastona un filtro colmo di caffè macinato sul quale versare l’acqua bollente in modo da assorbirne le sostanze aromatiche evitando il permanere dei residui, cosa che accadeva nel normale processo di infusione dei semi in acqua bollente. All’epoca gli scambi con la Francia erano intensi, grazie anche alla dinastia dei Borboni, e l’invenzione di Morize trova a Napoli il successo che non ebbe in patria, perché gli artigiani la perfezionano incastonando il filtro, forato, contenente la polvere di caffè all’interno del serbatoio dell’acqua sul quale si avvita il contenitore della bevanda. Quando l’acqua va in ebollizione la caffettiera viene capovolta in modo da consentire, per gravità, il passaggio dell’acqua attraverso il filtro contenente il caffè. Nasce così la caffettiera “napoletana” o, dialettale, “cuccumella” che consente la preparazione del caffè in tutte le case trasformandolo in un momento della vita familiare ed in un’occasione di socialità.

È indimenticabile il monologo nel quale Edoardo De Filippo nella sua commedia “Questi Fantasmi” si rivolge al dirimpettaio, il Professor Santanna, descrivendo, in modo dettagliato, le fasi di preparazione del caffè con la “cuccumella”, in particolare suggerendogli l’utilizzo del “cuppitiello”, piccolo coperchio di carta da sistemare sul becco della caffettiera, una volta terminata la preparazione, per preservarne l’aroma.

La Cimbali Pitagora 1962; fot. Irene Fanizza

La coltivazione del caffè nella seconda metà dell’800 si diffonde ulteriormente, soprattutto in Sud America (Brasile, Guatemala, Colombia) e nelle colonie africane dei paesi europei dalle quali viene esportato verso il Vecchio Continente ed in Nord America.

All’Expo Universale di Parigi nel 1855 viene presentata dal francese Louis Bernard Babaut, la prima macchina a vapore per la preparazione di più caffè contemporaneamente ma ha scarso successo perché la temperatura del vapore, non controllata, rischia di far esplodere il macchinario.

Il salto di qualità avviene in Italia nel 1901 quando Luigi Bezzera, sulla scia di un altro inventore, Angelo Moriondo, mette a punto la prima macchina da caffè in grado di riempire tazze in serie, cedendone poi i brevetti a Desiderio Pavoni che inizia a produrla nel 1908.

Sono macchine dotate di una caldaia scaldata da un fornello a gas, in grado di riscaldare grandi quantità d’acqua e “percolare” la polvere di caffè (stesso principio della caffettiera napoletana) potendo servire in tempi rapidi un numero maggiore di clienti, ma sono macchine ingombranti, a sviluppo verticale e di non facile manutenzione che forniscono una bevanda dal sapore a volte “bruciato”, come nota un milanese che lavora nel caffè di famiglia, Achille Gaggia, che insieme ad Antonio Cremonese, inizia a produrre una caldaia che manda in ebollizione l’acqua utilizzando la pressione a temperatura costante e non il vapore per dare al caffè un sapore migliore, ma siamo nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale e la novità, ha scarsa eco.

Peraltro qualche anno prima (1935) era stato costruito un primo prototipo di macchina in grado di regolare automaticamente la temperatura dell’acqua, la “Illetta”, così denominata dal nome del suo inventore, Francesco Illy, fondatore del celeberrimo marchio “Illy caffè” di Trieste, divenuta importante città di torrefazione del caffè.

Bisogna attendere la messa in produzione di “Classica”, nel 1948, sempre su intuizione di Achille Gaggia per avere una macchina da caffè con la pressione e la temperatura dell’acqua regolate da una leva idraulica e la fuoriuscita del caffè contemporaneamente da più erogatori posizionati in orizzontale.

È la prima macchina industriale per la preparazione del caffè “espresso” che può essere pronto in circa 30 secondi grazie all’utilizzo di una leva idraulica che regola la temperatura dell’acqua che passa attraverso la polvere del caffè ad una temperatura ottimale, circa 90 gradi, dandogli un aspetto cremoso ed un aroma inconfondibile. Tanto che l’inventore la pubblicizzò come “macchina per Crema caffè naturale-funziona senza vapore”.

MUMAC, fot. Emanuel Galimberti

Dagli anni ’50 le macchine Gaggia, grazie alla meccanica innovativa ed al design accattivante, cominciano ad essere esportate in tutto il mondo a partire da quei paesi in cui le comunità italiane erano forti. Il marchio Gaggia, nel 1977, ha anche il merito di aver consentito a milioni di consumatori di preparare a casa un “espresso” come al bar, grazie alla “Baby Gaggia”, dal design compatto e dal classico colore arancione.

Ma un ruolo fondamentale nel consumo domestico del caffè lo si deve ad Alfonso Bialetti che, nel 1933, immette sul mercato una caffettiera a pressione, della quale se ne sono venduti ad oggi oltre 120 milioni di esemplari, alla quale dà il nome di Moka, dal porto dello Yemen dal quale partirono i primi carichi di caffè.

La diffusione capillare in Italia e poi nel mondo dell’espresso e delle macchine per la sua preparazione è dovuta anche a campagne di marketing molto accattivanti ideate -a partire dagli anni ’60, in televisione – dai più importanti produttori di caffè italiani.

È ancora oggi molto vivo in Italia il ricordo dello spot TV della Lavazza che, nel 1965 pubblicizzava il suo marchio “Paulista” attraverso le gesta di Caballero e Carmencita, due personaggi stilizzati creati da Armando Testa, mitico pubblicitario italiano.

Importanti designer come Giò Ponti, Bruno Munari, Achille Castiglioni, vengono ingaggiati per rendere accattivanti le forme delle macchine professionali da caffè e nel 1962, il “Compasso d’Oro”, il più prestigioso premio conferito dall’Associazione dei Designer Italiani, viene assegnato a “Pitagora”, macchina da caffè disegnata da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, per conto de “La Cimbali Spa”, altro mitico marchio italiano delle macchine da caffè che, per celebrare i 100 anni di attività inaugura il MUMAC, “Museo delle Macchine da Caffè” professionali aperto a Binasco, a pochi chilometri da Milano, accanto alla sede del gruppo Cimbali, nel quale sono esposte le 200 macchine da caffè grazie anche alle quali si è diffuso nel mondo il mito dell’espresso che, come si è descritto, non è soltanto l’aggettivo della lingua italiana oggi comunemente usato nel mondo per ordinare un caffè, ma il frutto di un lungo viaggio che, nei secoli, ha coinvolto molti popoli e introdotto usanze ed abitudini ma che in Italia è diventato, secondo la definizione che Ernesto Illy ha dato dell’espresso, un miracolo di chimica e fisica, fatto di arte e scienza insieme.

 

Il caffè, dopo l’acqua ed insieme al tè è la bevanda più diffusa al mondo. Se ne producono 11 miliardi di chili in 70 paesi e nella sua produzione sono coinvolti oltre 25 milioni di coltivatori (dati International Coffee Organization). I principali 10 produttori: Brasile, Vietnam, Colombia, Indonesia, Etiopia, India, Honduras, Perù, Guatemala, Uganda. I principali 10 importatori: Francia, Stati Uniti, Germania, Italia, Belgio, Francia, Spagna, Regno Unito. L’Italia esporta 1,5 miliardi di caffè torrefatto (Istat, 2021), in 90 paesi del mondo, principalmente destinati a: Germania, Francia, USA, Polonia, Grecia, Regno Unito, Russia. In Italia sono attive oltre mille torrefazioni.