Che cos’hanno in comune le innovazioni della biotecnologia e le antiche tradizioni dell’agricoltura? La recente pandemia di Covid-19, unita alla crisi politica ed economica che si prospetta in Europa come conseguenza alla guerra in Ucraina, ha messo in luce un problema noto già da tempo: l’insicurezza alimentare.
Secondo l’ultimo rapporto dell’ONU si prevede entro il 2050 di raggiungere la soglia di 10 miliardi di abitanti sul pianeta. 10 miliardi di bocche da sfamare, in un pianeta le cui risorse non sono infinite. A oggi si contano ancora 850 milioni di persone che soffrono di denutrizione distribuite in 55 Paesi: l’obiettivo delle Nazioni Unite è quello di raggiungere la sicurezza alimentare entro il 2030. Per riuscirci è indispensabile cambiare a livello globale l’attuale sistema di produzione alimentare che, purtroppo, è tra i maggiori responsabili di crisi climatica, inquinamento e riduzione della biodiversità nel pianeta. Ciò significa che dalla coltivazione all’acquisto, ognuno è chiamato a fare la sua parte. Mentre la scienza è impegnata nella ricerca di soluzioni innovative, anche il consumatore finale può e deve iniziare a essere più consapevole del peso delle proprie abitudini alimentari.
La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per Alimentazione e Agricoltura) definisce in modo preciso ciò che ci si aspetta da un’alimentazione sostenibile: “deve avere basso impatto ambientale e contribuire alla salute e alla sicurezza alimentare, per il presente e per le generazioni future. Garantire protezione e rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, essere culturalmente accettabile, accessibile, economicamente conveniente, adeguata nel profilo nutritivo, ottimizzando nel contempo le risorse naturali e umane”. Una sfida tutt’altro che semplice!
Da un lato si investe sempre di più nel settore “foodtech” e “foodscience”, cioè lo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione del cibo, con la possibilità di realizzare alimenti attraverso coltivazione in laboratorio di cellule animali, per produrre la cosiddetta “carne coltivata”, oppure l’utilizzo alternativo di vegetali: lo scopo in ogni caso è quello di ricreare artificialmente gusto e consistenza della carne animale. Di recente la startup israeliana Yumoja, le cui ricerche fino ad oggi erano rivolte al settore cosmetico, ha trovato la soluzione per dare la giusta succosità ai prodotti che simulano la carne, e ha brevettato il primo “sangue vegetale” ottenuto dalla microalga Ounje (parola africana che significa letteralmente “cibo”).
Mentre la tecnologia va avanti, all’agricoltura viene richiesto di fare un passo indietro, poiché le monocolture e le coltivazioni estensive hanno causato desertificazione e impoverimento del terreno.
Il Forum Economico Mondiale, insieme al WWF, ha stilato una lista dei 50 cibi del futuro, allo scopo di ispirare una maggiore varietà alimentare. I cibi sono stati scelti sulla base delle caratteristiche che meglio rispecchiano la definizione di dieta sostenibile, e fortunatamente anche sulla base del gradimento!
La lista comprende alghe, cereali, legumi e germogli, cactus (ebbene sì!), radici e tuberi, frutta, verdura, semi, funghi. Niente cose avveniristiche, anzi, la parola d’ordine è il ritorno alla semplicità. In comune hanno solo una caratteristica: sono tutti cibi di origine vegetale.
Le fonti proteiche di origine vegetale sostengono il cambiamento verso il consumo di più piante e meno animali, i legumi arricchiscono il suolo in cui sono coltivati, i funghi hanno la capacità di crescere in aree inadatte ad altre piante commestibili. Fra i cibi suggeriti sicuramente l’attenzione è catturata dalle alghe: in Occidente siamo poco abituati al loro consumo, ma gli esperti prevedono che giocheranno un ruolo determinante. Per crescere infatti richiedono meno acqua e meno energia rispetto ad altre piante, e la loro coltivazione è definita “carbonnegative”: rimuovono CO2 dall’ecosistema e sono responsabili per metà di tutta la produzione di ossigeno sulla Terra. Possono essere ricche di proteine e il loro sapore può ricordare quello della carne.
Altro elemento curioso che troviamo nella lista sono i cactus, o piante grasse. Normalmente utilizzati come piante decorative, alcuni tipi di cactus sono commestibili. Immagazzinano acqua, e per questo sono in grado di crescere anche in presenza di clima arido, e hanno un ottimo contenuto di sostanze nutritive. Foglie e fiori possono essere consumati crudi o cotti, e trasformati in succhi e marmellate. Ne è un esempio il fico d’India, diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e, in provincia di Catania, protetto anche con il marchio DOP. Di questa pianta non si butta via niente: sono commestibili le pale, i petali dei fiori e ovviamente i frutti.
Se questi sono i cibi che ci aspettano, il futuro non sembra così male, a patto di coltivare il rispetto per il pianeta e tutti i suoi abitanti. Per questo oggi non vi lascio consigli culinari, ma solo una rifl essione su queste parole del Mahatma Gandhi: «La terra ha risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di poche persone».
Domande o curiosità inerenti l’alimentazione? Scrivete a info@tizianacremesini.it e cercherò di rispondere attraverso questa rubrica!
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Tiziana Cremesini, diplomata in Naturopatia presso l’Istituto di Medicina Globale di Padova. Ha frequentato la Scuola di Interazione Uomo-Animale ottenendo la qualifica di Referente per intervento di Zooantropologia Assistenziale (Pet-Therapy), attività in cui si sposano i suoi interessi: supporto terapeutico e miglioramento della relazione fra essere umano e ambiente circostante. Nel 2011 ha vinto il premio letterario Firenze per le culture di pace in memoria di Tiziano Terzani. Attualmente è iscritta al corso di Scienze e Tecnologie per Ambiente e Natura presso l’Università degli Studi di Trieste. Ha pubblicato due libri “Emozioni animali e fiori di Bach” (2013), “Ricette vegan per negati” (2020). Con Gazzetta Italia collabora dal 2015 curando la rubrica “Siamo ciò che mangiamo”. Per più informazioni visitate il sito www.tizianacremesini.it