
Un seduttore, certo, ma anche un mago, un matematico, un baro, un medico praticone, un gastronomo, una spia, un massone, ma soprattutto un letterato: era tutto questo Giacomo Casanova, nato 300 anni fa, il 2 aprile 1725, che noi conosciamo soprattutto per essere stato un “casanova”. L’etichetta del donnaiolo impenitente gli è stata appiccicata addosso nel XIX per vendere le sua autobiografia, dopo che era diventato un perfetto sconosciuto. Un’operazione di marketing, e ben riuscita, visto che oggi è uno dei tre veneziani più conosciuti nel mondo, assieme a Marco Polo e ad Antonio Vivaldi.
Eppure quand’era in vita le cose stavano diversamente: non solo non era l’avventuriero più famoso del suo tempo – Cagliostro lo sopravanzava, e di molto – ma neppure il Casanova più conosciuto. Il fratello Francesco, pittore di battaglie, un genere all’epoca molto richiesto, era ben più noto, tanto che quando viene presentato a Caterina di Russia, l’imperatrice lo raggela chiedendogli: «Siete il fratello del pittore?» al che Giacomo replica piccato: «Questo imbrattatele».
Il veneziano potrebbe essere definito un influencer del suo tempo che grazie ai post (le opere che scrive) cerca di agguantare il rango sociale che non gli era stato garantito dal sangue e, attraverso la scrittura, intende ottenere l’immortalità. Giacomo era molto probabilmente figlio naturale di un patrizio veneziano all’epoca molto conosciuto e potente, Michele Grimani, e per questo si sentiva parte di una classe sociale che invece lo escludeva; l’essersi fatto chiamare cavaliere di Seingalt costituisce un tentativo di auto-nobilitazione. Casanova era logorroico e grafomane, conosciamo la prima caratteristica grazie alle testimonianze («Parla in eterno», osserva il governatore austriaco di Trieste, Karl von Zinzerdorf) e la seconda attraverso i suoi scritti arrivati fino a noi: le 3682 pagine del manoscritto di Histoire de ma vie, innanzi a tutto, ma anche quelle del suo ricchissimo archivio oggi conservato a Praga, arrivato lì dal castello boemo dove Casanova è morto il 4 giugno 1798.
Giacomo ha fatto di tutto per diventare famoso, per esempio intratteneva i salotti europei di quella che era la “società della conversazione” con il racconto della sua rocambolesca fuga dai piombi di Venezia – le celle nel sottotetto di palazzo Ducale – nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1756. Aveva bisogno di due ore, e se non aveva a disposizione quel tempo minimo, si rifiutava di raccontare. Quando già si trovava a Dux (oggi Duchcov), relegato a fare il bibliotecario del conte di Waldstein, pubblica nel 1788 in francese la Storia dalle prigioni della Repubblica di Venezia, chiamate piombi, opera in seguito entrata a far parte di Storia della mia vita. L’opera ha un discreto successo, così come Il duello, ovvero il racconto della sua singolar tenzone alla pistola, avvenuta nel 1766 a Varsavia con il conte Franciszek Ksawery Branicki, podstoli (viceciambellano) del re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski; la pubblicazione avviene nel 1780, ovvero due anni prima che Casanova lasci per sempre Venezia.
Se questi sono i due lavori a stampa di maggior successo di Casanova, la sua attività pubblicistica è ben più ampia, poiché il conto totale arriva a quarantatré opere, certo, alcune sono semplici opuscoli, ma si tratta di una produzione letteraria di tutto rispetto. È probabile che se si fosse chiesto al veneziano che mestiere facesse, avrebbe risposto: il letterato. Istoria delle turbolenze della Polonia, della quale Giacomo aveva pubblicato due volumi e un terzo è stato ritrovato manoscritto tra le sue carte di Dux, rivela il suo interesse per la storiografia e Icosameron, è pur sempre uno dei primi romanzi di fantascienza della storia della letteratura, anche se è stato un flop totale che lo ha pure rovinato finanziariamente poiché lo aveva stampato a spese proprie.
Qualcuno ha definito la vita di Casanova un «viaggio gastrosessuale nell’Europa del Settecento» poiché il veneziano è in perenne movimento: è stato calcolato che abbia visitato un centinaio di località diverse, da Londra a Costantinopoli, da Madrid a Pietroburgo. Racconta di alberghi, di carrozze e anche di quel che mangia e beve, il cibo e il vino sono presenti lungo tutto il dipanarsi di Storia della mia vita, da quando descrive il suo primo rapporto sessuale, con le sorelle Nanette e Marton, precisando che è andato a casa loro portando con sé due bottiglie di vino di Cipro e una lingua affumicata, fino agli ultimi anni nel castello del conte di Waldstein, rallegrati da fumanti piatti di maccheroni (che poi erano gnocchi di farina). «Ho molto amato anche la buona tavola e insieme tutte le cose che eccitano la curiosità», scrive Giacomo, e la sua vita inizia e finisce all’insegna dei gamberi. «Mia madre mi mise al mondo a Venezia il 2 aprile 1725, domenica di Pasqua. La vigilia ebbe una gran voglia di gamberi. A me piacciono moltissimo», sottolinea. Mentre il 6 maggio 1798, un mese prima della morte, un’amica gli comunica: «Non sono ancora in grado di mandarvi una zuppa di gamberi» e come la madre aveva una voglia di gamberi prima di partorire, così Giacomo rimane con la voglia di gamberi prima di morire.
