Avrebbe cento anni oggi Beppe Fenoglio, nato ad Alba nel 1922 e morto per un tumore ai polmoni nel 1963, a Torino, prima ancora di compiere quarantuno anni. Nonostante un’esistenza così breve, e tre soli libri pubblicati in vita, oggi Fenoglio è uno degli autori più studiati e considerati dagli studiosi di letteratura italiana, un vero e proprio classico novecentesco, per quanto il valore della sua scrittura non sia stato immediatamente riconosciuto in modo unanime dalla critica.
Quando esordì, settant’anni fa, nel 1952, con il libro I ventitré giorni della città di Alba, molti restarono spiazzati dalla sua rappresentazione tragico-grottesca della Resistenza. Fenoglio mostrava un taglio antiretorico che coglieva, senza ideologie, nell’esperienza partigiana l’indispensabile riconquista di dignità di un popolo e di una nazione. Egli rappresenta per questo uno dei più autorevoli testimoni di una giovane generazione chiamata, come mai nella storia, a farsi carico delle colpe di chi l’aveva preceduta, e a riscattare, mettendo in gioco la propria vita, il disastro militare e morale in cui il regime aveva precipitato l’Italia. Per questo i protagonisti di Fenoglio risultano eroici, “titanici”, proprio nelle loro umane contraddizioni, nelle loro fragilità e nei loro smarrimenti, nella forza, in defi nitiva, con cui si fanno carico della loro inadeguatezza di ventenni posti di fronte a una colossale impresa: ridare rispettabilità a un popolo e a un paese che l’aveva smarrita nei lunghi, pesantissimi anni della dittatura.
Anche la seconda opera di Fenoglio, uscita nel 1954, si muove nel segno dell’incomprensione. Nel romanzo breve La malora l’autore poneva al centro il destino di privazioni e sconfitte di un giovane mezzadro delle Langhe, esemplare portavoce di una vita di miseria, senza riscatto, ma piena di dignità. Sorprendentemente, lo stesso direttore della collana che aveva deciso di pubblicare il testo, Elio Vittorini, nella quarta di copertina fi niva praticamente per stroncare il libro fenogliano, riconducendolo ad una attardata ripresa del verismo ottocentesco. Fu questo uno smacco e una ferita molto dolorosa per Fenoglio, che poi portò dentro di sé per tutta la vita. La malora, però, diversamente da quanto pensava Vittorini, era un libro di grande modernità, pienamente novecentesco, in cui ritroviamo tutti gli elementi del secondo polo della scrittura di Fenoglio, cioè il mondo contadino e le Langhe, con i suoi personaggi bruschi e solitari, segnati da una realtà crudele, cruenta, da un destino spietato. Anche l’ultimo libro stampato in vita da Fenoglio non è stato esente da una nuova, decisiva incomprensione. L’opera, intitolata Primavera di bellezza, del 1959, racconta la storia di un giovane soldato italiano, anglofilo, soprannominato da tutti Johnny, chiamato a fare i conti con la disfatta dell’esercito italiano dell’8 settembre 1943, dopo l’armistizio con gli anglo-americani. Il romanzo ci porta dentro una pesante e generale atmosfera di pre-catastrofe, di tracollo militare e morale di un’intera nazione, dove la gran parte dei generali, ancor prima che dei soldati, abbandona le caserme cercando una via di fuga verso casa. Johnny, per converso, decide di prendere parte alle iniziali forme di Resistenza che si organizzarono nel Nord per trovare la morte in uno dei primi scontri a fuoco con i fascisti. In realtà il progetto di Fenoglio era quello di scrivere un grande romanzo epico, in cui accompagnare il suo protagonista nel fi tto della storia italiana dal 1939 al 1945. Davanti alle perplessità del suo nuovo editore verso questo imponente e strabordante progetto, che Fenoglio intendeva pubblicare in due volumi, l’autore decide di troncare di netto la seconda parte, interamente dedicata alla lotta partigiana, per consegnare alle stampe un volume più breve che ponesse termine alla vita del suo protagonista durante la primissima fase della guerra di liberazione, nel dicembre del 1943. La parte che Fenoglio decide di sacrifi care è in realtà un enorme progetto di epos novecentesco, rimasto incompiuto, trovato fra le sue carte e dato alle stampe nel 1968, a cura di Lorenzo Mondo, con il titolo redazionale Il partigiano Johnny. Questo testo, nonostante non rappresenti ovviamente la versione finale voluta dall’autore, e nonostante permanga un work in progress, complicato ulteriormente da diverse stesure (su cui la critica fenogliana sino ad oggi discute), rappresenta uno dei più importanti romanzi europei sulla Seconda Guerra Mondiale. La lingua è ricchissima, vertiginosa, incandescente come la lava, sospesa fra inglese e italiano, costantemente tesa verso una sorta di fl uviale e inarrestabile moderno poema epico. Al suo interno troviamo la descrizione, come dal vivo, quasi in presa diretta, delle sorti di un soldato, reduce dall’8 settembre, che decide di entrare nel “regno arcangelico dei partigiani” per scivolare nel fango delle battaglie, affrontare il gelo e la neve di un inverno infinito. Johnny incarna quella che un altro grande testimone anti-retorico della Resistenza quale Luigi Meneghello definiva come la “piega eroica del pensiero”, propria dello scrittore di Alba. Il protagonista del romanzo di Fenoglio sente che fare il proprio dovere difficilmente gli permetterà di uscire vivo dalla guerra, ed è costantemente accompagnato da un presentimento di morte imminente: di qui una tensione al sublime, drammatica, perturbante ed esplosiva delle frasi, un’aggettivazione spasmodica, tale da creare e plasmare una nuova lingua che non ha precedenti nella tradizione letteraria italiana. Libro monumentale e di intramontabile attualità, carico di angosce, speranze e dilemmi, Il partigiano Johnny ci restituisce, come ha sottolineato Gabriele Pedullà, uno dei suoi massimi interpreti contemporanei, “i principi ideali e le paure e le ragioni e i sogni di un’intera generazione come nessun libro è riuscito a fare”. In questa opera le Langhe si animano, il vento, il cielo, le acque e la terra urlano la loro presenza e la loro potenza arcaica, minacciosa e simbolica. In una realtà prossima ad un caos originario Johnny ci appare, di volta in volta, come scolpito dal genio omerico, o provenire direttamente dalle pagine della Bibbia o dell’Eneide, così come dalla scena del teatro elisabettiano.
La grandezza di Fenoglio, emersa come detto in modo perentorio dopo la sua morte, oltre all’epica in progress del Partigiano Johnny, si lega a un altro testo incompiuto, il romanzo breve intitolato (a posteriori) Una questione privata, uscito per la prima volta nell’anno della morte dell’autore, all’interno della raccolta Un giorno di fuoco. Il protagonista di questa opera è un giovane appassionato di letteratura (in primo luogo inglese), di nome Milton (come l’autore del poema epico del XVII secolo Il paradiso perduto), il quale nel bel mezzo della guerra partigiana perde ogni contatto con la realtà che lo circonda, impazzendo come un novello Orlando di fronte al terrore che la ragazza che aveva corteggiato prima della guerra, Silvia, lo abbia tradito con il suo migliore amico, Giorgio, compagno di lotta partigiana, attraverso le Langhe, abbandona il suo dovere di partigiano, per cercare di liberare Giorgio al fine di scoprire la verità, una verità più importante (e più devastante per Milton) della guerra stessa, una verità “privata”, sentimentale e assoluta, talmente sconvolgente da accecarlo e da spingerlo, inesorabilmente, verso la follia e incontro alla morte.
È il caso di ricordare, in conclusione, che Beppe Fenoglio nasce nell’anno della marcia su Roma e della presa del potere di Mussolini. Aspetto da non trascurare per intendere il rigore etico, lo sprezzo per la retorica della lingua e della cultura del Ventennio così come l’anglofilia di un autore che, sin dal liceo aveva preso l’impegno, in primis con se stesso, come ricordava Pietro Chiodi, suo professore e grande studioso di Kierkegaard, di dire di no al fascismo. Per portare avanti, nella scrittura, i suoi ideali, Fenoglio spaziava dall’epos antico a Shakespeare, dalla poesia romantica a Hemingway e Sartre, aperto al meglio della cultura europea, alla ricerca di una Italia diversa. Johnny e Milton, così prossimi a Fenoglio da nascere più che dalla sua penna dal suo midollo spinale, ostinatamente e romanticamente votati a restare fedeli ai propri valori e alle proprie passioni liceali, continuano a portare avanti, anche nel XXI secolo, la lezione di libertà e di riscatto di un autore per il quale le parole “scrittore” e “partigiano” erano parole assolute, a cui dedicare tutte le energie creative e umane di una vita.