Pompeo Girolamo Batoni

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BATONI: (Si rivolge al pubblico quasi sottovoce) Sapete, a settantanove anni si è terribilmente vecchi. Anche se si è Pompeo Girolamo Batoni! E la vecchiaia non la tollera nessuno, neanche le persone più care. (Si guarda intorno) Perché devo vivere così al buio? (Mentre s’avvicina a due candelabri poggiati su un piano) Chissà quanto buio mi aspetta con la morte! Ora, finché m’è consentito, voglio vedere la luce. (Accende alcune candele) I miei figli e i miei nipoti hanno tutti il loro bel da fare; non possono certo star appresso ad un vecchio come me. Anch’io da ragazzo, d’altronde, avevo il mio bel da fare per divertirmi, quando poi non dovevo seguire mio padre nella sua bottega di orafo. E da adulto avevo da pensare alla famiglia che m’ero creato. Avrei mai avuto, allora, il tempo d’assistere i miei nonni, o qualcuno di famiglia che con l’età si fosse rimbecillito? Anzi, tra i miei figli, i maschi tutti e tre, hanno lavorato a bottega con me. Uno, Felice, è venuto addirittura con me a lavorare a Lisbona. E quattro delle mie figlie, di quelle che hanno scelto l’arte, anziché la clausura o il matrimonio, hanno suonato per anni nell’antibottega, in modo da accogliere ed intrattenere piacevolmente le lunghe schiere di ospiti, di visitatori e di committenti, che ogni giorno si accalcavano lì in attesa di essere ricevuti da me. E le mie citte offrivano dolci e leccornie varie, preparate da loro stesse, con le loro mani, una vera panacea, per quei signori, contro tutti i disagi per le lunghe ed estenuanti attese. I miei figli, tutti e dodici, hanno le mani d’oro, c’è chi suona l’arpa o la viola, chi, come Ruffina, compone versi, chi disegna, chi dipinge, chi sa cucinare. E se io oggi sono vecchio non è colpa di nessuno di loro. Certo, neanche mia. Si invecchia per colpa o per grazia della natura, del Padreterno. E noi, una volta vecchi, con il fatto che ci consideriamo detentori delle tradizioni, degli usi e delle consuetudini, così vorremmo che nulla cambiasse, che il sistema di vita restasse quello che noi conosciamo. E allora giù con improperi contro chi è più giovane di noi. Questo perché costui sta cambiando, si sta trasformando. E ancora giù contro chi si adegua, contro il mondo intero che, col suo ritmo, a noi, ormai stanchi, ci sconvolge. E così diventiamo scorbutici, antipatici, ossessivi, intolleranti. A sprazzi siamo anche consapevoli di tutti questi nostri orrendi difetti, ma purtroppo ciò accade soltanto in particolari momenti di lucidità e di senso d’umanità, come per me adesso. E non consideriamo i disagi e le difficoltà che creiamo ai nostri figli – ancora di più quando noi siamo anziani e loro ancora giovani – o a chi ci assiste, quando ci ostiniamo, quando non vogliamo valutare le loro esigenze, quando se ci propongono di trasferirci altrove, noi ci intestardiamo a voler vivere in quella casa dove abbiamo sempre vissuto, dal momento che quella è stata il nostro rifugio per tutta la vita. Così sacrifichiamo i nostri figli, creiamo spesso figli soli, senza una moglie, senza un marito, senza prole. Li colpevolizziamo in nome di tutto quello che noi abbiamo sempre fatto per loro; creiamo loro una miriade di atroci rimorsi soltanto per dar sfogo ai nostri capricci, perché vogliamo essere considerati, assistiti, ossequiati. Invece non è così che devono andare le cose. Il mondo appartiene a tutti, anche a noi, è vero, ma dobbiamo tener presente ch’esso appartiene soprattutto a coloro che poi lo muovono e che dovranno abitarlo in futuro. Noi dovremmo avere il coraggio di ritirarci di buon grado; dovremmo raccoglierci tra noi anziani, dovremmo assisterci tra di noi, come una comunità superiore, privilegiata perché più saggia, distaccata dal resto del mondo, con tutto il bagaglio del nostro sapere, dei nostri interessi, con la nostra conoscenza da distribuire a tutti coloro che ce ne facessero richiesta, senza alcuna distinzione: a figli, a parenti, ad amici, … ad estranei. Dovremmo insomma vivere appartati, in qualche luogo, sempre pronti però, noi, ad offrire il nostro contributo, i nostri consigli, quindi in qualche modo integrati con gli altri. Ed intanto dovremmo coltivare degli interessi, avere cura della nostra persona, scambiarci tra di noi, informazioni, aiuti, amicizia, assistenza. Ma tua moglie? Vi domanderete. Mia moglie, poverina, fa quello che può per me. Anche lei ha da pensare ai suoi malanni ed è ancora al servizio qualche nostro figlio in difficoltà. (Mentre recupera un calice da sopra un tavolo e versa dentro del vino) Scusate se bevo un po’ di vino, il latte dei vecchi. (Beve) Altra cosa. Come avete sentito dire prima, da quelle donne, noi anziani dovremmo accettare le malattie, il distacco dagli affetti e godere di ogni possibilità che ancora la natura ci riserva. Abbiamo perso un occhio, abbiamo l’altro, li abbiamo persi tutti e due, abbiamo l’olfatto, abbiamo perso anche l’olfatto, ci restano il tatto, il gusto e così via. Anche perché per noi, prima o poi, sopraggiungerà la morte, quella morte che allora non dovremmo vederla come una soluzione ai nostri problemi, ma un’amica che viene per condurci in un’altra dimensione. Il nostro cuore quindi, prima o poi, è destinato ad arrestarsi; esso infatti, anche se sede dei sentimenti, altro non è che un viscere con la funzione di pompare e spingere il sangue in ogni parte del nostro corpo. E non è come il tempo che, credo, continuerà a pulsare per l’eternità. C’è un cuore soltanto che vivrà in eterno, quello Sacro di Gesù Cristo che io ho rappresentato più volte con i miei pennelli. (Prende un quadro appeso ad una parete e lo mostra al pubblico) Questa è una copia ad olio su tela che ho voluto conservare per me. L’originale, alla Chiesa dei Gesuiti a Roma, invece era su rame. Vedete qui, il Cuore di Gesù irradia luce, non vive al buio, nascosto all’interno del corpo come quello nostro; il Sacro Cuore è manifesto, visibile a chiunque, come è stato per Margherita Maria Alacoque, a chiunque, naturalmente, abbia un sincero desiderio di vederlo. (Ecco che avverte intorno a sé delle presenze)