Andrea Zanzotto: un poeta gettato nel futuro

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2021 è stato un anno straordinariamente ricco di celebrazioni e ricorrenze per la letteratura italiana, a partire ovviamente dal settecentesimo anniversario della morte di Dante, a cui si aggiungono i festeggiamenti per i 150 anni dalla nascita di Maria Grazia Deledda, i 125 dalla nascita di Eugenio Montale, i 120 da quella di Salvatore Quasimodo. Cento anni fa inoltre è nato il grande scrittore siciliano Leonardo Sciascia così come Andrea Zanzotto, uno dei più significativi rappresentanti della poesia europea dal secondo dopoguerra ad oggi.

Era nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 ottobre, ed è morto a Conegliano, sempre in provincia di Treviso, il 18 ottobre del 2011, appena varcata la soglia dei novant’anni. Per circa settant’anni Zanzotto ha posto al centro della sua inesauribile curiosità e inquietudine intellettuale, come stella polare, la convinzione che la poesia rappresenti una delle più ostinate forme di speranza e di attaccamento al senso profondo della vita. Ma per far ciò egli ha ininterrottamente sollecitato la poesia stessa a mettersi in discussione, a spingersi oltre, a varcare il suo spazio tradizionale, per fare i conti con una realtà più ampia, sensibile alla ricerca scientifica, capace di saltare a piè pari oltre gli steccati della cultura umanistica, restando però sempre prima di tutto poeta.

Quella di Zanzotto è allo stesso tempo una lingua babelica e privatissima, segnata da traumi personali quanto epocali. L’“autonomia totale” della poesia, a cui la sua pagina a tratti rimanda, si realizza solo passando attraverso un continuo incontro con la storia. Uno dei nodi della sua opera è rappresentato dall’attenzione al paesaggio (sino alla drammatica denuncia della sua progressiva devastazione), tanto da trasformare gran parte della sua poesia in una sorta di invocazione e celebrazione, da poeta trobadorico, delle virtù ‘miracolose’ della sua Pieve di Soligo, luogo natale che rappresentava per lui, allo stesso tempo, un riferimento reale e ideale, qualcosa di sognato e vissuto, fonte apparentemente inesauribile di entusiasmi quanto di terrori primordiali.

Le tracce della prima guerra mondiale, impresse come ferite ancora aperte sul paesaggio veneto, i ricordi della resistenza al nazi-fascismo, il trauma del boom economico italiano a partire dalla fine degli anni Cinquanta sino alle trasformazioni planetarie portate dalla globalizzazione: sono questi gli scenari in cui la sua poesia si immerge, affrontando la storia in chiave geologica, geografica, spaziale. Dalla apparente retrovia della sua Pieve di Soligo Zanzotto è riuscito a parlare al mondo e del mondo, dando forma ad una delle opere più globali e originali del nostro Novecento, prossima, pur nella sua unicità, a due grandi altri maestri europei, come il poeta rumeno, di origine ebraica e lingua tedesca, Paul Celan e lo svizzero, di lingua francese, Philippe Jaccottet. Zanzotto è stato un intellettuale libero e generoso, orgogliosamente periferico e allo stesso tempo profondamente cosmopolita, dalla forte vocazione civile. Della realtà ha indagato le stratificazioni, muovendosi come una talpa in profondità, ponendo in dialogo mondo e inconscio, intrecciando linguaggio, paesaggio e identità. In definitiva la sua opera, ricca di paradossi, aporie, opposizioni e polarizzazioni, fonde le dinamiche del viaggio verticale, alla ricerca di simboli e archetipi, con quelle di un percorso orizzontale, tanto che Andrea Cortellessa, uno dei suoi più sensibili interpreti contemporanei, ha recentemente proposto di leggere i suoi componimenti come esempi di Land Art.

La poesia, pur se spinta quasi al margine, tenta, nonostante tutto (…), di ‘far ricordare’ la presenza dell’ardore originario, anche quando sia tragedia o dramma, anche quando sembri aver perduto essa stessa ogni senso. Continua a puntare sulla vita, per quanto enigmatica essa sia.

L’esordio poetico di Zanzotto è avvenuto all’inizio degli anni Cinquanta con la raccolta Dietro il paesaggio, in cui si rivendicava il complesso tentativo di sanare la ferita fra storia e cultura, fra natura e uomo, che la seconda guerra mondiale aveva lasciato in eredità. Questo “petrarchista impazzito”, come lo definirà Pasolini, che a molti critici di allora era inizialmente sembrato un attardato, legato a poetiche ormai superate, vetuste, in realtà, invece, era e si era da subito gettato nel futuro, dimostrandosi capace di sperimentare e ripensare la tradizione poetica italiana, muovendosi fra lirica ed enciclopedia, mettendo la sua coltissima formazione letteraria in dialogo con gli stimoli provenienti dallo strutturalismo, dall’astronomia, dalla cibernetica, dalle neuroscienze, dalla psicoanalisi e dall’antropologia, nonché dalle novità introdotte dalla fisica e dalla chimica contemporanee.

Nei suoi testi troviamo recuperi del linguaggio infantile, neologismi, citazioni, giochi fonici, termini stranieri (in francese, inglese e tedesco) così come inserti in latino e in greco, riflessioni meta-letterarie, richiami al mondo del fumetto e dello scarabocchio, nonché, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, le risorse del dialetto, terreno di incontro fra il mondo dei defunti e quello del quotidiano. Proprio il dialetto è stato alla base della sua collaborazione con Federico Fellini, concretizzatasi nella stesura di alcuni testi in veneto per il film Casanova del 1976, composti nel segno di una suggestiva alleanza fra sacro e popolare, di un paradossale intreccio di euforia e angoscia. A Pasolini invece lo accomunava lo choc per la mutazione infernale cui il paesaggio viene sottoposto in Italia a partire dagli anni del boom economico, nonché l’idea che la letteratura sia chiamata a svolgere una funzione pedagogica molto prossima a una sorta di passio cristica.

Zanzotto, dunque, da sempre “versato nel 2000”, continua ad abitare con la sua opera il XXI secolo, e lo fa a partire dalla sua capacità di anticipare e problematizzare questioni che oggi più che mai impongono di superare le divisioni fra cultura umanistica e cultura scientifica, a partire dal dibattito che ruota attorno al concetto di antropocene, la nuova era geologica dominata dall’azione dell’uomo e dai rischi che ne derivano per le sorti del nostro habitat. La sofferenza per la devastazione del paesaggio e la crisi ecologica del pianeta diventano negli anni una questione chiave per l’autore al fi ne di leggere la storia del XX e del XXI secolo, tanto che in occasione delle celebrazioni del suo ottantacinquesimo compleanno arriverà a dichiarare: “Prima c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi ed è la stessa logica”. Così come, con efficace vena sarcastica, criticando l’antropocentrismo della cultura moderna, definirà l’umanità “un’insignificante muffetta che appena sopra lo zero […] ha attecchito sulla terra, essendosi poi anche rivelata velenosa a sé e a tutto”.

Ai suoi lettori di sempre, così come agli “occhi più futuri”, ai nuovi lettori che questa opera saprà conquistare a sé, resta aperta come più preziosa eredità del pensiero artistico zanzottiano la necessità di proseguire il dialogo (spesso apparentemente compromesso) fra psiche e ambiente così come fra poesia, etica e utopia.