Era un uomo minuto, di poche parole, negli ultimi anni piegato dal peso dell’età e delle vicissitudini, con quello sguardo profondo tipico di chi aveva un vissuto da raccontare, talvolta difficile ma affascinante. E poi quel sorriso, così ampio e caldo, che si apriva ogni qual volta sentiva parlare italiano a sottolineare un legame che veniva da lontano, nato nelle difficoltà e quindi vero, concreto ed indissolubile.
Il 27 gennaio, nelle stesse ore in cui si celebrava il 78° anniversario dell’apertura definitiva dei cancelli di Auschwitz-Birkenau, ci ha lasciato Wojciech Narębski, un protagonista di quegli eventi che sconvolsero l’Europa, un grande amico dell’Italia.
Il percorso che lo ha portato in Italia iniziò in quella Vilnius, allora polacca, ma sotto occupazione sovietica. Aveva da poco iniziato la quarta ginnasio e da poco era entrato a far parte di un movimento di resistenza (ZWP) quando venne arrestato con tutto il gruppo di cui faceva parte. Rimase in prigione a Vilnius per circa tre mesi, sino al giugno del 1941 quando, come conseguenza dell’operazione Barbarossa, venne trasferito prima a Gorkij (oggi Nižnij Novgorod) e poi a Kirov, in Siberia. Ma il caos in cui versava l’Unione Sovietica nei mesi successivi all’invasione tedesca portò all’accordo Sikorski- Majski e alla graduale apertura delle porte dei gulag per i polacchi dando così inizio una storia incredibile fatta di 120.000 protagonisti, 1334 giorni e 12.500 chilometri. Uno di quei 120.000 era Wojciech Narębski. Unendosi infatti ad un gruppo di soldati fuoriusciti dai gulag, Wojciech riuscì a raggiungere la città di Buzuluk, non lontana dal confine con il Kazakistan a quasi 900 km dal Gulag dove si trovava. Qui, mentendo sulla sua età, entrò a far parte della celebre armata del Generale Anders.
La strada per l’Italia fu lunga: prima l’Uzbekistan, poi l’attraversamento del Mar Caspio, l’Iran, la Siria, l’Iraq e la Palestina, dove Wojciech fece conoscenza del suo omonimo orso Wojtek che lo accompagnò nel resto delle sue peripezie.
Giunse finalmente il momento di attraversare il Mediterraneo. Quando ebbi modo di parlare con lui, nel marzo del 2020, ricordava così quel momento: “Da settimane si parlava nel campo che fosse arrivato il momento di muoverci ed entrare in guerra. […] Per un paio di giorni si era vociferato di un nostro spostamento in India. Poi finalmente la scelta cadde sull’Italia. Tutti facemmo un respiro di sollievo. L’Italia era il paese da cui erano partiti i reggimenti che nel Risorgimento avevano lottato per l’indipendenza della Polonia. Forse era un segnale? Che saremmo tornati in Patria passando dall’Italia? Da vincitori e liberatori? Questo era il nostro sogno”.
Wojciech venne sbarcato a Taranto e portato immediatamente a Venafro, non lontano da Cassino, dove da settimane gli alleati cercavano di scacciare i tedeschi dall’abbazia ed aprirsi la strada verso Roma. Wojciech si occupava del rifornimento e per ben due volte si recò in prima linea con i carichi di munizioni. Come la storia ricorda furono appunto i polacchi ad innalzare la bandiera biancorossa sulle rovine dell’abbazia di Montecassino. L’armata polacca, sempre sotto gli ordini di Anders, venne poi spostata sulla dorsale adriatica con il compito di presidiare l’area e preparare l’attacco ad Ancona, conquistata la quale Wojciech venne mandato prima a Matera per studiare e poi a Casamassima in Puglia per essere operato d’ernia. Tornato a Matera venne informato della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Ma se le armi avevano smesso finalmente di sparare la politica continuava il suo tremendo gioco. La lunga mano di Stalin si estendeva ora fino alla Vistola e per il II Corpo d’Armata del Generale Anders, fedele al governo polacco a Londra, risultava impossibile tornare. Molti seguirono Anders in Inghilterra (come Wojciech), altri rimasero come apolidi in Italia, altri tornarono nonostante tutto a casa passando anni terribili tra interrogatori, ripercussioni sul lavoro e, talvolta, prigione. Wojciech era ancora un ragazzino e grazie all’interessamento del padre riuscì a fare ritorno a casa, ricongiungersi con la sua famiglia dopo sei lunghi anni, studiare e diventare un famoso geologo.
Per ricordare questo grande uomo basta lasciare la parola ad un suo caro amico, Ugo Rufino, per anni direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia: “Ho conosciuto Wojciech al mio arrivo a Cracovia e mi ha colpito subito la sua spiccata personalità, la sua vivace intelligenza e la peculiare umanità […]. Tutti noi siamo grati a Wojciech dell’esempio dato, insieme a tanti altri suoi compagni d’armi, per la disciplina, l’orgoglio, il coraggio ed il sacrificio. […]”.
Da parte mia un grande ringraziamento va a tutti quei ragazzi, provenienti da ogni angolo del globo, che hanno rischiato, talvolta perdendola, la cosa più preziosa, la vita, per la libertà del mio Paese. Se sono cresciuto in un paese libero lo devo anche al loro sacrificio.
Lascio l’ultima parola al suo amico Ugo: “Per il tuo inconfondibile sorriso, grazie per sempre caro Wojtek”.