Giorgio Napolitano
LA VIA MAESTRA
L’Europa e il ruolo dell’Italia nel mondo
conversazione con
Federico Rampini
Premessa (quasi autobiografica)
Nel mio dialogo con Federico Rampini, nelle mie risposte alle sue domande e alle sue sollecitazioni, si riflette l’esperienza di un settennato (2006-2013), intensamente vissuto da presidente della Repubblica anche sul terreno delle relazioni internazionali. Nel disegno costituzionale concepito, nell’Italia liberatasi dal fascismo, tra il giugno 1946 e il dicembre 1947, così come nelle analisi interpretative, nella prassi politica e nella giurisprudenza che ne hanno fatto nei decenni successivi una realtà vivente, aperta a ogni prova e verifica, la figura del capo dello Stato è stata identificata con quella di un presidente “non esecutivo”. Un presidente, cioè, non dotato di poteri di governo, ma investito di precise funzioni sancite nella Carta, tra cui certamente anche quella di rappresentare il paese nella vita internazionale. Di rappresentarlo insieme e d’intesa con il governo, riconoscendo l’autorità di decisione dell’Esecutivo, sorretto dalla fiducia del Parlamento, anche in materia di politica estera nonché di politica di difesa e sicurezza.
Dunque, senza alcuna confusione e sovrapposizione di poteri e di responsabilità (al di là di qualche episodio di frizione e dissonanza verificatosi nei passati decenni), il presidente della Repubblica è comunque partecipe e coprotagonista di una fitta rete di relazioni, da quelle con i capi delle missioni diplomatiche straniere di cui accoglie le credenziali a quelle con i capi di Stato che riceve in Italia e dai quali è ricevuto, in visite di Stato o informali, nei rispettivi paesi. Si realizza così – e si è realizzata nel corso del mio settennato – una vasta messe di incontri di valore internazionale: ho tenuto in Italia 112 incontri con capi di Stato e numerosi altri con personalità di governo e rappresentanze straniere, e ho compiuto 75 viaggi all’estero, anche su invito di organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato, al Parlamento europeo. Occasioni speciali d’incontro sono state offerte dalle iniziative per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, culminate nella grande celebrazione a Roma del 2 giugno 2011; mentre hanno avuto un particolare significato gli incontri annuali “Uniti per l’Europa” degli 8 presidenti europei, secondo una consuetudine inaugurata dal mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi e dai suoi omologhi dell’epoca (presidenti “non esecutivi”).
Ho richiamato questa cornice istituzionale e questa esperienza personale per chiarire come valutazioni e punti di vista espressi via via nelle pagine che seguono scaturiscano dall’insieme degli scambi di opinione, delle discussioni pubbliche e riservate, che hanno costituito il contenuto della mia attività internazionale tra il 2006 e il 2013, e degli approfondimenti che han- no preceduto e seguito ogni incontro. Vorrei aggiungere e sottolineare che quell’attività è stata fonte di conoscenza di molti attori della vita internazionale e di sviluppo, quindi, anche di significativi rapporti personali. Può essere di qualche interesse, forse, citare alcuni esempi e ricordare alcuni episodi di particolare spessore umano ed emotivo. Penso, per esempio, a come si è aperto e a come si è concluso i1 mio primo settennato.
Si è aperto – il 21 maggio 2006, pochi giorni dopo i1 mio insediamento al Quirinale – con una visita a Ventotene, per partecipare all’omaggio programmato per il 20° anniversario della scomparsa di Altiero Spinelli. Era i1 riconoscimento dovuto all’uomo dal quale avevo tratto una decisiva lezione ideale e “di metodo”. E mi riferisco a una fase lontana della mia storia politica e culturale, a quella che fu (a partire dalla fine degli anni Sessanta) la fase dell’“apprendistato europeistico” dei comunisti italiani: la fase del passaggio del Pci da una posizione negativa e di diffidenza verso la nascente Comunità europea all’assunzione della consapevolezza della necessità di non estraniar- si dal processo di integrazione avviato dall’Italia di De Gasperi insieme con gli altri 5 paesi “fondatori”.
Di quell’evoluzione, che personalità come Giorgio Amendola e Nilde Iotti vissero entrando nel 1969 a far parte de11’Assemblea di Strasburgo, io fui partecipe con piena convinzione, traendo poi una determinante ispirazione da1 rapporto diretto con Altiero Spinelli (eletto nel 1976 come indipendente nelle liste del Pci) e dall’approfondimento della sua esperienza e del suo pensiero (ne diedi testimonianza nel 2007 nella raccolta di scritti Altiero Spinelli e l’Europa). Fu dunque con profonda emozione che, nella limpida luce del mattino di quel 21 maggio 2006, dissi a Ventotene delle idee e delle battaglie di Spinelli: “Si tratta del lascito più ricco su cui possano contare, per formarsi moralmente e per operare guardando al futuro, le nostre generazioni più giovani. Lo penso ancora oggi, e ne sono convinto più che mai, constatando come da un indebolirsi, in larghi strati di cittadini ed elettori, della conoscenza e comprensione del progetto europeo con- segua il diffondersi della sfiducia nella politica, nella democrazia e nell’avvenire comune.
Il settennato si è concluso, il 24 marzo 2013, con il pellegrinaggio a Sant’Anna di Stazzema – luogo di una delle più feroci stragi naziste sul finire della seconda guerra mondiale – che abbiamo compiuto insieme io, da presidente della Repubblica italiana, e Joachim Gauck, da presidente della Repubblica federale tedesca. Nel comune omaggio alla memoria delle vittime — inermi di ogni età, bambini, intere famiglie —, nell’abbraccio tra noi presidenti e con la popolazione di quel piccolo borgo, sopravvissuti alla strage, eredi delle vittime, gente modesta e laboriosa, sentimmo forte lo spirito, il senso più alto dell’unità europea.
Il superamento di micidiali nazionalismi aggressivi: era questo l’obiettivo con cui si identificò Altiero Spinelli, immaginando, dall’isola in cui era ristretto come prigioniero, il disegno di una nuova Europa. La riconciliazione, il riavvicinamento tra nazioni e tra popoli la cui reciproca ostilità aveva per ben due volte, nel Novecento, trascinato l’Europa nell’abisso di guerre mondiali sempre più devastanti: e dunque la pace e la cooperazione, soprattutto tra Francia e Germania, come essenziale matrice politica di un processo di integrazione europea, che non nacque in chiave puramente economicistica. Che non nacque e tanto meno può oggi restare chiuso in quella chiave, in quella dimensione.
Ecco quel che sentivamo, io e il collega e amico Gauck, sulle colline di Sant’Anna di Stazzema. Perciò a me quella giornata è apparsa come un ideale punto di approdo di sette anni, nei quali per tanta parte il mio impegno sia internazionale sia nazionale è sta-to segnato da convinzioni e da scelte europeistiche.
E vorrei anche dire che in quell’omaggio del presi- dente tedesco alle povere vittime della macchina di guerra e di oppressione scatenata dal nazismo in ogni angolo d’Europa ho ritrovavo l’immagine esemplare, in- dimenticabile, del cancelliere Willy Brandt – già oppositore del nazismo ed esule – che cade in ginocchio dinanzi al monumento alle vittime del ghetto di Varsavia.
L’esperienza e le idee di Brandt hanno rappresentato per me un alto punto di riferimento, sempre più suggestivo da quando lo incontrai per la prima volta fino a quando discutemmo insieme della sinistra italiana nei suoi rapporti con la socialdemocrazia europea in quel giorno – 9 novembre 1989 – che per singolare coincidenza con un’imprevedibile accelerazione della storia sarebbe stato anche il giorno della caduta del Muro di Berlino. Ho ricordato quel magico momento, quell’incontro personale con Willy Brandt, rivedendo il 1° marzo scorso all’Università Humboldt di Berlino – che mi aveva invitato a inaugurare con una lezione sull’Europa una delle annuali Willy Brandt lectures – Egon Bahr, uno dei più eminenti e fedeli collaboratori di fede europeistica del cancelliere della Ostpolitik. Ci eravamo salutati l’ultima volta, commossi, alla cerimonia funebre per Willy Brandt, nell’ottobre 1992, nell’edificio del vecchio Reichstag a Berlino.
Il lettore vorrà comprendere questo mio risalire a momenti del passato partendo da storie di anni e per- fino mesi recenti. È un fatto che in quel passato si ritrovano non secondarie premesse del modo in cui ho potuto assolvere le mie responsabilità internazionali di presidente. Queste le ho, naturalmente, adempiute in stretta ed esclusiva aderenza a una tradizione e visione unitaria dell’interesse e del ruolo dell’Italia sotto il profilo della sua collocazione internazionale e della sua politica estera. Ma le mie pluriennali esperienze precedenti in campo internazionale – pur vissute nel- lo svolgimento di funzioni politiche di parte (già superate, peraltro, nel presiedere la Camera dei deputati italiana o la Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo) – mi hanno fatto sempre sentire a mio agio, e mai a disagio, nel rappresentare infine da presidente della Repubblica il mio paese, tutto il paese, in Europa e nel mondo.
In effetti ho ripreso – senza soluzione di continuità – il rapporto di collaborazione e amicizia con personalità conosciute vent’anni prima, come il presidente austriaco Heinz Fischer o quello israeliano Shimon Peres. E mi sono trovato subito in un comune sentire con europeisti di una generazione molto più giovane, come Bronislaw Komorowski, divenuto presidente polacco nel solco della grande tradizione di Solidarno??, i1 cui esponente più eminente per sensibilità e cultura europea, Bronislaw Geremek, conoscevo e seguivo con ammirazione già negli anni Ottanta. E come Danilo Turk, presidente sloveno fino al 2012, studioso di diritto internazionale di impronta italiana, impegnatosi con me e con il nuovo presidente croato, Ivo Josipovi?, a gettare le basi di una riconciliazione e nuova cooperazione nell’Adriatico, a chiusura di drammatiche tensioni ereditate dalle vicende della seconda guerra mondiale nei Balcani. Gli incontri, non solo di vertice ma popolari, a Trieste ne1 2010 e a Pola nel 2011 rimangono le tappe più coinvolgenti da me vissute nel percorso di allargamento e consolidamento dell’unità europea.
E anche alla condivisione di quel percorso che ricollego il singolare rapporto che si è stabilito tra me, da presidente della Repubblica italiana, e il pontefice Benedetto XVI, fino alle sue dimissioni nel febbraio 2013. Un rapporto nato dall’’interesse, che si manifestò subito tra noi, a conoscerci, a comprenderci, a confrontare le nostre valutazioni e opinioni sui temi che ci coinvolgevano entrambi nell’esercizio dei rispettivi ruoli. E tra quei temi prese subito rilievo l’Europa, rispetto alla quale convergevamo nel considerare decisivo il processo di unificazione e integrazione e il potenziale contributo a una positiva evoluzione del quadro internazionale, a cominciare dalla ricerca di una soluzione pacifica del conflitto mediorientale.
La frequentazione del papa è stata per me un’esperienza nuova, e particolarmente stimolante e ricca per to spessore culturale della sua personalità. Ma la sintonia e la confidenza non comuni che hanno caratterizzato i1 nostro rapporto non si spiegano solo alla luce di affinità personali. Quel che ci faceva sentire vicini era un essenziale retroterra comune, in quanto entrambe le nostre vite risultavano integralmente inscritte nella grandiosa e terribile esperienza storica del Novecento. Un’esperienza che i nostri due paesi di origine avevano più di tutti gli altri vissuto in termini drammatici e traumatici fino alla metà del secolo scorso, e dalla quale noi stessi come persone – Joseph Ratzinger al pari di me – avevamo tratto un decisivo impulso a riconoscerci nella visione di una nuova Europa unita, continuando a coltivarla e perseguirla anche una volta giunti ad altissime responsabilità a1 vertice della Chiesa cattolica e dello Stato italiano.
Un così significativo e caloroso rapporto tra il presidente e il pontefice è stato naturalmente molto importante anche per consolidare un’operosa collaborazione, nel reciproco rispetto, tra Stato e Chiesa in Italia. Che qui ricordo, com’è facile intendere, non tanto quale componente della politica internazionale che ho condiviso da presidente, quanto come uno degli architravi del processo di coesione – sempre da consolidare e rinnovare – della società italiana. È la strada su cui già ci stiamo inoltrando anche con il nuovo pontefice Francesco.
Nello stesso tempo, l’asse dell’europeismo attorno a cui hanno ruotato fin dagli anni Cinquanta la presenza e l’iniziativa dell’Italia nella vita internazionale è sempre stato inseparabile dall’altro riferimento decisivo: quello dell’amicizia e alleanza con gli Stati Uniti, nel più vasto quadro transatlantico. Inseparabili, quell’asse e questo riferimento, lo sono stati anche nella mia esperienza lungo il primo settennato presidenziale e il trentennio precedente. Quando nel 1978 potei compiere la mia prima visita in America, non mi limitai a uno sforzo di rappresentazione della realtà politica italiana, in cui trovassero il giusto posto le posizioni della sinistra. Parlando in alcune delle più importanti università statunitensi e in prestigiosi centri di formazione dell’opinione pubblica, mi feci nello stesso tempo portatore della visione di un’Europa comunitaria che si andava facendo sempre più inclusiva e anche più assertiva, e tendeva ad assumere un profilo internazionale più autonomo ma senza mettere in questione il suo legame storico con gli Stati Uniti. Quella mia missione si collocava in antitesi all’antiamericanismo ancora diffuso in Italia nella sinistra di opposizione.
La visione di cui mi facevo portatore aveva all’epoca – per la mia qualifica di dirigente del Pci – i connotati dell’“eurocomunismo”, un fenomeno che interessava fortemente i più sensibili e aperti circoli culturali e politici americani, così come li interessava – più dell’“ordinaria” politica interna italiana – la singolare realtà del Pci. Di quell’interesse, e del ruolo da me svolto negli anno Settanta e oltre, ho colto (non senza sorpresa) ancora tracce e testimonianze in occasione del mio più recente viaggio – da presidente della Repubblica – negli Stati Uniti (gennaio 2013).
Nel progressivo consolidarsi e arricchirsi della mia visione delle componenti ideali e storiche del rapporto tra Europa e Stati Uniti, del loro comune radicamento e della loro comune appartenenza all’Occidente come “luogo della democrazia”, posso rivendicare una continuità e una coerenza rafforzatesi attraverso le revisioni e i cambiamenti d’orizzonte culturale e politico che pure ho conosciuto fino alla grande svolta del 1989. Di quella continuità, e di certi fecondi antecedenti, mi sono largamente giovato nello svolgere il mio ruolo e nel dare il mio contributo – nel settennato presidenziale – sia sul fronte politico e istituzionale europeo sia sul fronte dei rapporti Europa-America.
Un “antecedente” che mi piace ricordare è quello della partecipazione, negli anni Ottanta-Novanta, a un ciclo di incontri semestrali promossi dall’Aspen Institute tra parlamentari europei (una ristretta rappresentanza) e parlamentari statunitensi (in più nutrita schiera): incontri dedicati all’evolversi, in anni cruciali, delle relazioni tra Est e Ovest.
E vorrei anche ricordare l’assai formativo “antecedente” dell’esperienza da me compiuta, a partire dal 1984 e per ben dieci anni, come membro dell’Assemblea parlamentare della Nato. In quella sede ebbi modo di coltivare le tematiche della difesa e della sicurezza, e di avere colleghi – specialmente europei, e in particolare della sinistra (tedeschi, inglesi, spagnoli) – con i quali mi sarei poi reincontrato in diverse vesti e occasioni. I molteplici percorsi che ho ricordato sarebbero negli anni scorsi confluiti nel rapporto stabilito al livello più alto con le sfere dirigenti americane: da presidente italiano con il presidente degli Stati Uniti. Ho seguito da vicino, con neutralità istituzionale e con personale passione e speranza, l’emergere e l’affermarsi di Barack Obama alla guida degli Stati Uniti. Il rapporto che si è stabilito tra noi ha toccato livelli di attenzione, fiducia e finanche confidenza reciproca, e ha presentato tonalità umane, di autentica amicizia, che non avrei potuto prevedere. In fin dei conti, rappresentiamo generazioni e storie diversissime: ma che ciò non abbia costituito un ostacolo, e abbia piuttosto rappresentato uno stimolo, dimostra quanto sia importante – nei rapporti tra i diversi paesi e le loro leadership – un’affinità di approcci, di modi di sentire, di retroterra ideali e morali, oltre che di orientamenti e di impegni politici. E da questo clima instauratosi nell’esercizio delle rispettive funzioni e delle comuni responsabilità tra il presidente italiano e il presidente americano ha tratto beneficio il mio paese, e ha tratto beneficio l’Europa. L’interesse nazionale italiano e l’interesse comune europeo: è questo che, in definitiva, ha contato e conta per me più di ogni altra cosa.
Giorgio Napolitano
Post scriptum
Questo libro, nato da un’idea di Federico Rampini, è stato da noi concepito — e scritto “a quattro mani” — come parte del bilancio del settennato presidenziale (maggio 2006 – aprile 2013) sotto i1 profilo delle iniziative e delle relazioni internazionali di cui sono stato parte attiva nell’esercizio della mia funzione istituzionale. Poi, in circostanze del tutto impreviste, sono stato sollecitato – nonostante mie nette dichiarazioni di volontà in senso opposto – a rendermi disponibile per la rielezione a presidente, che ha avuto luogo – con un voto di larghissimo consenso – il 20 aprile 2013. Questo libro vede la luce, dunque, a breve distanza dall’inizio di un secondo mandato, e non può dar conto di sviluppi, che ancora non ci sono stati, della mia attività internazionale. Ma al testo abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno prima di andare in stampa, con la massima attenzione per ogni novità che intervenisse nel quadro europeo e mondiale.