Bruno Fiammella
(Pubblicato sito www.filodiritto.com) Per citazioni indichiamo anche anche il sito www.fiammella.it)
L’epoca in cui viviamo è caratterizzata da molteplici cambiamenti dettati dalla imperante rivoluzione della cosiddetta information technology. Essa ha condizionato tanto il nostro ” modus vivendi ” da mutare radicalmente i nostri costumi, le abitudini, le nostre condizioni di vita e di lavoro rendendo possibili e fattivamente realizzabili, alcuni comportamenti che, solo dieci anni or sono, erano frutto delle fantasie degli scrittori più audaci.
L’evoluzione causata da questa nuova tecnologia dell’informazione, apre le porte del nostro futuro verso una nuova era cosiddetta “telematica”. Con tale termine si definisce “il metodo tecnologico di trasmissione del pensiero a distanza mediante l’impiego di un linguaggio computerizzato che veicola informazioni automatizzate”; è un’epoca in cui, quindi, i tempi di trasmissione delle informazioni sono immediati.
L’avvento delle nuove tecnologie, le cosiddette autostrade dell’informazione, attestatane ed acclaratane l’utilità e necessità, ha tuttavia aperto la strada a nuove frontiere della criminalità. I diversi strumenti che la scienza pone nelle mani dell’uomo, infatti, possono essere canalizzati in settori spesso differenti da quelli per i quali erano stati progettati e gli stessi obbiettivi da raggiungere, divergono notevolmente dalle intenzioni originarie degli ideatori.
Da tempo ormai la comunità scientifica si sta occupando di quella branca della criminologia che studia e definisce le forme di reato legate alla tecnologia digitale, infatti, come tutti i cambiamenti che la collettività vive, anche le nuove tecnologie impongono ai criminali un processo di adattamento.
In sede di elaborazione di una disciplina normativa che fosse adatta ai nuovi comportamenti criminali, si crearono due correnti in dottrina.
La prima, più innovatrice, riteneva il doversi procedere attraverso la creazione di un capo autonomo del codice di diritto penale avente ad oggetto tutte le nuove disposizioni, costruite ex novo in base alle nuove esigenze, creando quindi una legge organica avente ad oggetto un nuovo bene giuridico, meglio identificato come “bene giuridico informatico”. L’altra corrente, definita conservatrice, sosteneva invece che i beni giuridici da tutelare fossero gli stessi identificati in precedenza e che pertanto fosse sufficiente modificare le fattispecie già esistenti, meglio specificando alcuni comportamenti che, in passato, non potevano essere previsti, dato il livello di cognizione scientifica.
In alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, si è preferita la strada della emanazione di una nuova legge organica; altri, tra i quali l’Italia, hanno invece optato per il metodo evolutivo, aggiornando, con una serie di interventi, la legislazione penale previgente.
La legge 547/93 che nel nostro paese ne è scaturita, costituisce un ibrido in cui parte delle norme sono innovative e parte sono una modificazione parziale di disposizioni già esistenti.
Il problema si pone anche per le fattispecie come quella prevista dall’art. 595 c.p., la diffamazione, oggetto di questo studio, poiché si tratta di norme del codice penale emanate prima dell’avvento della tecnologia informatica. Tali reati, che non hanno subito una modifica con l’ingresso della l. 547/93, possono trovare applicazione anche in relazione alle “nuove” condotte di aggressione, alle nuove forme di attacco al bene giuridico tutelato?
Occorrerà quindi verificare se e come sia possibile che si concretizzino le disposizioni normative già esistenti, cioè nel nostro caso se sia possibile perpetrare, attraverso i servizi messi a disposizione da internet, il reato di diffamazione e constatare, infine, se ed in che modi sia opportuno un intervento legislativo.
L’affascinante mondo della chat ha istituito un nuovo sistema di comunicazione fino a ieri sconosciuto. Il termine “chat” deriva dalla più lunga “Internet Relay Chat“, ovvero dal verbo anglofono “to chat”, che significa appunto “chiacchierare” e la sua traduzione letterale è: “conversazione attraverso Internet”.
Essa consente di coniugare il testo scritto, tipico delle lettere cartacee o della posta elettronica, con la simultaneità del dialogo, fino a poco tempo fa privilegio esclusivo delle comunicazioni telefoniche o radio-amatoriali.
E’ dunque una conversazione fra più utenti, condotta tramite Internet; è particolarmente conveniente in quanto ogni soggetto, collegandosi al proprio server attraverso appositi programmi gratuiti, ha la possibilità di introdursi in una o più aree tematiche di discussione aventi ad oggetto i più disparati argomenti; il tutto sostenendo esclusivamente i costi di una chiamata urbana, quella appunto al “nodo internet” più vicino, e ciò indipendentemente dalla collocazione geografia degli altri partecipanti. La comunicazione avviene in appositi canali o “stanze” che possono essere pubblici o privati, protetti eventualmente da una password, ai quali si può accedere solo dopo un invito esplicito da parte di uno dei cosiddetti operatori “op”.
Uno dei grandi vantaggi offerti dalla comunicazione via computer è la possibilità di entrare in contatto con persone lontane in tempo reale, attraverso il testo che, nello stesso momento in cui viene digitato, è letto dal destinatario o interlocutore.
La possibilità di comunicare in forma privata o pubblica, ha dei risvolti giuridici che non possono essere sottovalutati.
Infatti, in relazione alla comunicazione privata, è chiaro che essa consente il dialogo anche tra soggetti che si scambiano delle informazioni illegali, con l’unica diversità che, rispetto alle comunicazioni telefoniche, questo nuovo universo presenta delle difficoltà oggettive nella individuazione degli effettivi utenti: primo fra tutti il problema relativo alla identità personale degli interlocutori. In chat, infatti, ogni utente utilizza uno pseudonimo o nick – name; a ciò si aggiunge il fatto che, anche qualora si riuscisse a risalire all’IP (numero di protocollo assegnato dal server al momento del collegamento), non è detto che ad utilizzare il computer quel giorno, a quella data ora, fosse esattamente la persona titolare dell’abbonamento di fornitura di accesso ad internet. Potrebbe infatti trattarsi di un familiare, di un dipendente all’interno di una azienda o addirittura potrebbe essere una persona completamente estranea, ad esempio un hacker (o pirata informatico che dir si voglia) che sia riuscito ad interfacciarsi in forma illecita al computer di un altro utente, mascherando la propria identità.
La chat, nella sua minor parte, è pur sempre un ricettacolo di informazioni illecite. La possibilità di celare la propria identità, può senza dubbio avallare il comportamento criminale latente di alcuni individui altrimenti insospettabili.
E’ stato infatti riscontrato che, attraverso la comunicazione in chat, avviene uno scambio di appuntamenti o informazioni relative allo spaccio di sostanze stupefacenti, armi, immagini di pedo-pornografia.
Relativamente a questa analisi, la domanda da porsi è se, attraverso tale strumento, possa essere punita la condotta diffamante di chi divulga informazioni lesive del decoro, onore, o reputazione di un soggetto.
Una volta individuato il canale pubblico di discussione che si ritiene appropriato, vi si può accedere ed è come se ci si trovasse in una stanza o piazza virtuale, in cui ciascun utente è identificato dal proprio nick – name. Si può così dar luogo ad un dialogo, proprio come avverrebbe nella realtà, con l’unica differenza che le parti sono lontane, ciascuna comodamente seduta davanti al proprio personal computer.
Nel caso di affermazioni diffamatorie, quindi, nulla nega che vengano “pronunziate” in pubblico.
L’art. 595 c.p. recita: “Chiunque, comunicando con più persone …”. C’è da chiedersi se il requisito indispensabile della comunicazione possa considerarsi integrato anche quando lo strumento sia quello appunto della chat. Considerando che la comunicazione di cui stiamo parlando è di tipo telematico, cioè una comunicazione “che si giova delle tecnologie informatiche per le telecomunicazioni”, e considerando che con l’entrata in vigore della L. 547/93, le comunicazioni informatiche e telematiche hanno avuto il giusto riconoscimento da parte del legislatore, non sembra si possano muovere eccezioni sulla legittimità di una tutela esplicata anche nei confronti di ogni sorta di comunicazione, avvenuta proprio tramite una delle forme tipiche attraverso cui si esplica la comunicazione telematica, che è appunto la chat.
Possibilità, dunque, di configurare la fattispecie di cui all’art. 595 c.p., anche se le affermazioni avvengono sui canali IRC. Tuttavia, le problematiche verso cui si va incontro sono di tipo processuale, in particolare in sede probatoria. Dimostrare in sede processuale le dichiarazioni diffamatorie intervenute in una chat, causa agli operatori del diritto una serie di nuovi problemi con cui confrontarsi: innanzitutto occorrerebbe uno strumento certo che consenta la registrazione dei file di log della chat, avvenuta nel giorno e nell’ora in questione. Considerando l’ingente mole di lavoro a cui è sottoposto un server, già questa prima richiesta determina un primo oggettivo rallentamento dei lavori; in secondo luogo, occorrerebbe agire per tempo, poiché la denuncia per diffamazione deve avvenire entro novanta giorni dal fatto di reato o comunque dal momento in cui se ne è venuti a conoscenza. Si potrebbe fare una copia del file di log del proprio computer, che tuttavia, potendo essere facilmente modificato da chiunque, non può avere quella rilevanza probatoria che invece necessita. Questo documento potrebbe essere allegato alla denuncia presentata alla autorità giudiziaria, in attesa di ottenere l’autorizzazione ad estrarre copia del file di log direttamente dal service provider.
Altro problema è poi rappresentato dall’anonimato della chat, che, come già esposto in precedenza, renderebbe meno agevole l’individuazione dell’effettivo autore delle dichiarazioni infamanti.
Come si evince facilmente, le procedure diventano senza dubbio più farraginose e meno agevoli, specie qualora non si possegga una competenza ad hoc in materie delicate, come quella del diritto dell’informatica. Si incomincia a profilare la necessità di affiancare agli operatori del diritto, una serie di assistenti dotati di competenze tecniche e di cognizioni giuridiche specifiche nella materia in oggetto.
Conclusioni.
La rivoluzione che stiamo vivendo non è esente da problematiche e dai rischi ad essa connessi. La possibilità, in fieri, data ad ognuno di comunicare con tutti, può trasformare ogni individuo in un veicolo consapevole o meno di informazioni errate, fuorvianti o viziate che possono ricadere su Stati, gruppi o altri singoli.
Ecco perché probabilmente occorrerà tenere sempre ben demarcato il confine tra l’informazione che proviene dal privato, rispetto a quella che scaturisce da un professionista, quale è il giornalista; né si può pretendere che chi esercita tale professione sia sottoposto agli stessi vincoli o doveri, in una parola alle stesse responsabilità, rispetto ad un privato. Appare evidente come le problematiche che internet pone, non sono certamente limitate ai possibili usi illeciti di queste nuove forme di comunicazione. L’attenzione del legislatore andrebbe, in questa fase, rivolta anche ad alcuni importanti aspetti di tipo procedurale, come l’accertamento del fatto di reato, l’individuazione dell’effettivo responsabile e del locus commissi delicti e della possibilità di un concreto intervento, nel caso in cui il sito o l’autore si trovino all’estero.
Il criterio di responsabilità penale personale, la necessità di rispettare il principio di colpevolezza, non possono essere travalicati attraverso una generica e onnicomprensiva ascrizione di responsabilità a tutti i soggetti, che entrano all’interno del processo divulgativo delle informazioni per via telematica. A ciascun partecipe va addotta la responsabilità relativa alla propria condotta, alle proprie competenze, qualifiche ed operato. Ecco perché non possono essere penalmente parificate, sotto il profilo della punibilità, le differenti e variegate forme di responsabilità, relative all’operato del direttore di una rivista, di un service provider, di un utente privato che gestisce in forma personale la propria pagina web.
In conclusione si può affermare che “il progresso non è mai buono o cattivo in sé. E’ l’utilizzo che ne fa l’uomo che può renderlo cattivo”. L’uomo può essere soggetto attivo di un reato, la Rete soltanto uno fra i possibili mezzi.