Il ghetto di Varsavia, 70 anni dopo

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Leonardo A. Losito

L’inaugurazione a metà aprile a Varsavia di quello che probabilmente sarà il più importante museo ebraico d’Europa, coincide con il 70° anniversario dello scoppio dell’insurrezione del ghetto di Varsavia (19 aprile 1943), che storicamente rappresentò il primo episodio europeo di resistenza armata alle forze armate naziste. Le polemiche sulla memoria non sono mai mancate: i negazionisti ancora si accaniscono (specie nell’Iran degli ayatollah, ma non solo lì) a smentire la stessa esistenza dell’Olocausto ed a considerare la sanguinosa repressione nazista della rivolta del ghetto (conclusasi un mese dopo con la distruzione del quartiere ebraico ordinata dal generale Stroop delle SS) come una semplice operazione di polizia.

In questi giorni, si discute a Varsavia sulla proposta del governo Tusk di erigere accanto al museo ebraico appena inaugurato, un memoriale per i giusti fra i non ebrei: quelli che anche a costo della propria vita tentarono, spesso riuscendoci, di salvare molti ebrei dalla Shoah. La stessa Comunità ebraica appare divisa su questo argomento. Alcuni autorevoli esponenti ritengono che non sia questo né il luogo né il momento più opportuno per ricordare il pur innegabile eroismo di circa seimila polacchi, accanto al museo della millenaria esistenza ebraica, nella ricorrenza della distruzione del ghetto. Altri invece sostengono che sia non solo lecito, ma addirittura opportuno riconoscere un monumento ai giusti polacchi: specie in un momento in cui un po’ dappertutto in Europa i nazionalismi e le tensioni antisemite riacquistano virulenza.

La questione è estremamente complessa, anche perché si tratta di accostare sensibilità ed esigenze di profonda diversità sia storica che concettuale, su cui è difficilissimo applicare dei criteri di condivisa ed oggettiva analisi valoriale. Non tutti i polacchi erano (e sono) ostili agli ebrei, e questo è un fatto. Altrettanto innegabile è però che frizioni, incomprensioni e pregiudizi a carico degli ebrei siano ancora diffusi nel tessuto sociale polacco. Nella sola Varsavia, una recente rilevazione a campione fatta effettuare dalla locale Comunità ebraica tra 1250 studenti di età liceale, mostra che ben oltre il 40% degli interpellati non vorrebbe avere compagni di classe o vicini di casa ebrei. La percentuale sale poi al 60% per coloro i quali non li vorrebbe avere come partner sentimentale. E ciò che preoccupa è che sono dei giovani ad esprimersi in tal senso.

E in Italia, per fare un altro esempio, cosa si legge sull’argomento? Non c’e’ dubbio che non manchino pubblicazioni serie e rigorose per onestà di contenuti. Case editrici come La Giuntina di Firenze, Sellerio ed altre hanno un catalogo fornitissimo e mirato sulla questione complessiva dell’ebraismo, con titoli di tutto rispetto. Accade però anche che una casa editrice genovese di dichiarato orientamento apologetico su fatti e figure del nazismo, pubblichi senza che nessuno ne abbia mai fatto un problema l’unica edizione acriticamente disponibile in italiano del rapporto del generale Stroop delle SS (quello che scrisse trionfalisticamente ad Himmler che A Varsavia non esiste più un quartiere ebraico), con un’altrettanto ignobile prefazione dell’ineffabile negazionista francese Robert Faurisson.

Lo stesso, per intenderci, ospite d’onore ed acclamato maitre a penser delle periodiche adunate antisemite ed anti-israeliane del Presidente iraniano Ahmadinejad, che puntualmente ne magnifica le teorie e gli scritti: in base ai quali le camere a gas e l’Olocausto sarebbero un’invenzione propagandistica della stampa filo-israeliana; o che non sarebbero mai stati sterminati dai nazisti 6 milioni di ebrei: ne morirono, sì, circa 500.000, ma per cause che andrebbero — stando a quanto farnetica monsieur Faurisson — dalla durezza dei campi di lavori forzato, alle epidemie di tifo o ai bombardamenti degli anglo-americani sui campi di concentramento.

In Italia, dove il tema dell’Olocausto è diventato un argomento piuttosto popolarizzato a mezzo blog dalle infauste dichiarazioni di un leader neoqualunquista come Beppe Grillo, ci tocca solo aspettare l’uscita di una versione critica che sia filologicamente ineccepibile del Rapporto Stroop. Come ad esempio è quella pubblicata in Polonia nel 2009 per conto dell’IPN (l’Istituto della Memoria Nazionale), con un solido apparato di note e di bibliografia, curata da un valoroso studioso come Andrzej Zbikowski dell’Istituto Storico Ebraico, oggi diretto da un ex parlamentare ed apprezzato opinionista quale il Prof. Pawel Spiewak.

In attesa che qualche germanista nostrano avverta l’esigenza di colmare questa inspiegabile lacuna, il lettore italiano che voglia informarsi su quanto avveniva esattamente 70 anni fa nel ghetto di Varsavia raso al suolo (Sinagoga grande compresa) ad opera dei nazisti, potrà comunque leggere la traduzione dal polacco di Il ghetto di Varsavia lotta pubblicata per la prima volta nel 1945 da Marek Edelman, il ventiseienne vice comandante della ZOB (l’organizzazione ebraica di combattimento di cui facevano parte 220 intrepidi ragazzi e ragazze: il più giovane, Jurek Blones, aveva appena 13 anni).

L’autore della traduzione del testo di Edelman, uscita a marzo dell’anno scorso a Firenze, è Wlodek Goldkorn che ha teneramente dedicato questa pubblicazione ai suoi giovani nipoti, Arturo e Pietro; è il caporedattore culturale dell’Espresso; sull’argomento ha al suo attivo diversi titoli ed articoli. E mi ha promesso che per questo anniversario verrà a Varsavia: per testimoniare a chi ne dubitasse che l’Italia che scrive e che legge non ha dimenticato questa tragica, ma al tempo stesso esaltante, pagina di storia.