Venezia è tuttora un ricettacolo di fermenti intellettuali. Le disgraziate politiche amministrative, incapaci di difendere la residenza e di mantenere la deriva turistica in una dimensione sopportabile, non sono però riuscite a scalfire, almeno finora, l’irresistibile fascino attrattivo che la città esercita su chi ama e vive di arte, scrittura, musica, cinema. E così nell’ultima domenica del torrido agosto veneziano ho avuto la fortuna d’incontrare al bar Chiara Valerio scrittrice, curatrice editoriale, direttrice artistica e conduttrice radiofonica, di cui mi piace ricordare anche la straordinaria orazione funebre per l’amica Michela Murgia.
Seduti al tavolino sembravamo un po’ la copertina dell’album “Una donna per amico” del mitico Battisti, ma mentre Lucio, che incise quel LP nella capitale inglese, si fece fotografare al londinese Grapes’s Caffè, noi ci siamo incontrati in Campo Santa Margherita al bar Duchamp, e per coerenza al pittore francese la nostra conversazione ha preso una piega dadaista. Doveva essere una intervista ma io non ho fatto domande, Chiara non ha dato risposte e ognuno ha parlato di ciò che gli passava per la testa.
Ho cominciato senza domanda: “Cito una tua frase: i romanzi sono il contrario della tifoseria, perché leggi ma non devi prender posizione, ti abitui a non fare confusione tra autore e opera”.
“Ho appena riletto le Particelle elementari di Michel Houellebecq. Mi domandano come si faccia ad amare un uomo che scrive di donne che sono vittime di orge, mi chiedo se è tanto peggio della figura femminile che esce dal verismo italiano o dal naturalismo francese, uccise da lavoro e da doveri asfissianti”, risponde Chiara con quello sguardo intriso di lucida tensione che stimola l’interlocutore ad utilizzare il 100% dei neuroni per provare a restare aggrappato alla velocità di pensiero di Chiara, al suo parlare per metafore e simbologie.
“Noi dobbiamo restare fedeli alla pagina, uno scrive una cosa e quella vuole dire punto. Non dobbiamo tirare il testo in interpretazioni che si allontanano dal senso della parola scritta. Sovrapporre autore e opera è una forma d’analfabetismo culturale, pensiamo che uno possa scrivere solo di quello di cui ha fatto esperienza diretta? Ma davvero? E quello che una persona ha immaginato, sentito, letto, scritto, desiderato dove va a finire? È come se volessimo abbattere il valore del linguaggio, noi abbiamo cominciato a parlare per comunicare e quello che dicevamo era credibile ma non per forza vero”.
Provo a sintetizzare: “la scrittura è figlia di quello che è l’autore”.
“La curiosità per uno scrittore mi nasce eventualmente solo dopo aver letto quello che scrive. A 13 anni dopo aver metaforicamente bevuto tutta la Yourcenar mi sono chiesta chi era nella vita”.
Senza motivo intervengo: “cito un’altra tua frase: è l’imperfezione che fa muovere il mondo”.
“Perché non è così?” ribatte Chiara “l’imperfezione è la natura del mondo, me l’ha insegnato la matematica. Una volta a lezione parlavo del mio sforzo per arrivare alla migliore approssimazione. Il mio professore mi chiede quanto tempo ho perso e aggiunge a volte l’approssimazione migliore è la prima che ti viene. Insomma dobbiamo accontentarci di un 80%, nulla è perfetto, e il sapere che a volte bisogna semplicemente accettare che non c’è alcuna soluzione è bellissimo!”
Interrompo: “si può progettare matematicamente un romanzo?”
“La matematica mi serve come metodo per non credere all’autorità di chi si vuole imporre, la matematica ti porta oltre il conformismo e nel farlo diventa motore di innovazione, dopotutto è pura immaginazione: esiste il punto che non ha parti? Esiste il parallelismo? John Le Carrè parla di geometria utile non vera”.
Eppure dovrei fare una intervista così dico: “Ci piace associare l’Italia alla cultura ma forse parliamo al passato, di cultura antica, oggi siamo tra i Paesi europei in cui si legge meno…”
“Al mondo siamo oltre 10 miliardi di persone ma le discussioni intellettuali si svolgono in un piccolo fazzoletto di Paesi dove c’è un livello borghese di vita supportato da un sistema di diritti. In Italia ci sediamo su una idea di cultura perché abbiamo l’80% dei siti Unesco del mondo, siamo un luogo comune culturale, guarda dove siamo seduti…abbiamo intorno Venezia, dico Ve-ne-zia. Tu vuoi dirmi che oggi gli italiani sono come gli egiziani di fianco alle Piramidi? Sì è così. Possiamo però recuperare, anche se sarà un processo lento, dobbiamo accettare d’essere oggi una lingua minoritaria e investire di più nel far tradurre i nostri libri in altre lingue. Il mercato del libro vale 6 miliardi in Germania, 3 in Francia, 1,5 in Italia.”
Butto là: “nel frattempo cresciamo giovani che dialogano con l’Intelligenza Artificiale e sembrano indifferenti alle nostre preoccupazioni esistenziali”.
“Fanno battaglie su istanze ecologiche e con una grammatica che non capisco e non conosco, sembra più distruttiva che conciliativa sincretica, ma non possiamo altro che credere nel futuro, è chiaro che chi ha 20 anni vede più avanti di me che ne ho 46. Non sono paternalista e non voglio dirgli che si fa in un modo piuttosto che in un altro. Semplicemente gli credo. È una collettività diversa da quella in cui siamo cresciuti noi, è una collettività con meno corpo. Prendiamo ad esempio l’AI per me è una faccenda culturale, per loro è naturale, così come per me la macchina da scrivere era naturale e per mio padre era un oggetto culturale. Dobbiamo aspettare di vedere quello che costruiscono con mezzi che sono per loro naturali, se guardo mio nipote che ha 2 anni la sua prossemica è indifferente tra il vedermi dal vivo o in videochiamata, bacia lo schermo per salutarmi, io devo credergli se lui pensa sia corpo. Ci preoccupiamo che macchine scrivano libri o dipingano quadri? Recupereremo il valore della fisicità e dell’oralità. Insomma se deve andare così che vada, sono più curiosa che preoccupata. Giovani impigriti dalle macchine? Più che di pigrizia direi addomesticamento ti impediscono di esercitarti a risolvere certi problemi. Torneremo a dar valore all’ars facere, ovvero a sapere una cosa ma soprattutto a saperla fare, che poi sia col tuo corpo o con i dispositivi che avremmo a disposizione cambia poco. Guardare al futuro con pensiero apocalittico non mi interessa perché è deresponsabilizzante. Se deve finir tutto a breve e allora che te ne frega di come ti comporti oggi?”
Senza motivo dico: “ho studiato greco e latino ma non saprei tradurre nulla”.
“Io ho studiato 13 anni matematica e oggi non distinguo se una equazione di 3° grado sia risolvibile o non risolvibile. Greco-latino l’averli studiati ti è stato fondamentale, ti ha strutturato la mente anche se oggi non sai tradurre, il funzionalismo (ovvero ho studiato una cosa quindi devo saperla per sempre) non ha senso”.
Senza alcuna logica coerente improvvisamente mi trovo ad imprecare contro il tentativo di mettere un biglietto d’entrata a Venezia: “ma se uno ha un’amante di fuori regione che vuol fargli una sorpresa andandolo a trovare a casa a Venezia deve pagare il ticket?”
“Kundera sarebbe impazzito! Io a Venezia ci vengo ogni volta che posso col mio gatto. Ma tu parli polacco?”
“Sì o almeno ci provo”, rispondo.
“Una lingua la impari con l’amore o parlando con i bambini. Ho letto moltissimi scrittori polacchi. Da editore ho pubblicato due libri della Tokarczuk, scrittrice enorme, ovviamente mi accodo perché le hanno già dato il Nobel. Da ragazzina ho letto la raccolta dei premi Nobel e ovviamente Sienkiewicz, “Quo vadis”, ovvero parlare del presente attraverso Roma antica. La Polonia è un Paese di contrasti, dal punto di vista letterario lo amo, Pan Tadeusz, poema nazionale che si apre con “O Lituania mia patria perfetta”!
Aggiungo: “bè il refrain dell’inno nazionale è dalla terra italiana alla Polonia”.
“È un Paese di contraddizioni e questo genera grande letteratura, penso a Ferdydurke, Kosmos, Pornografia di Gombrowicz e poi l’ironia della Szymborska, i reportage di Kapuscinski. A proposito bello il libro sulla mitteleuropa di Francesco Cataluccio “Vado a vedere se di là è meglio”. E vogliamo parlare di Mariusz Szczygiel? Non puoi parlare dei problemi del tuo Paese così li tratti scrivendo della Repubblica Ceca? Il fatto è che quando ridi le cose le capisci meglio, e mentre l’intellettuale polacco è ironico e non tragico quello italiano tende alla noiosa seriosità”.
Chioso: “In Polonia si legge ancora Boccaccio”.
“Di sicuro più che in Italia. Ma poi scusa il cinema dove lo mettiamo? Sono cresciuta ai tempi di Fuoriorario quando trasmettevano senza soluzione di continuità Wajda, Zanussi, Kieslowski”.
Inevitabilmente chiedo: “sei stata spesso in Polonia?”
“Mai stata! Ma ad inizio 2025 pubblicano in polacco il mio romanzo “Chi dice e chi tace” e verrò di sicuro! Invitatemi!”.
Ora mi ricordo… il suo ultimo romanzo! Ecco cosa dovevo chiederle. Che figuraccia, non mi resta che sperare che gli Istituti Italiani di Cultura di Varsavia e Cracovia la invitino presto così rimedio.