Il fascino contemporaneo della maschera

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Padovano, “teatrista” dal 1993, Andrea Pennacchi è autore e regista di opere tra le quali “Eroi”, “Mio padre – appunti sulla guerra civile”, “Una Piccola Odissea”. Coprotagonista della serie “Petra” per Sky e “Tutto chiede salvezza” per Netflix (vincendo il Nastro d’Argento), ha recitato in diversi film tra cui “Io sono Li” e “Welcome Venice”, entrambi per la regia di Andrea Segre, ne “La sedia della felicità” a firma di Carlo Mazzacurati e in “Suburra” diretto da Stefano Sollima.

Nel 2018 recita l’ormai celebre monologo “This is Racism – Ciao terroni”, grazie al quale viene invitato come ospite fisso a Propaganda Live (La7) e conquista il grande pubblico con la sua ironia pungente. Ha pubblicato “Pojana e i suoi fratelli”, “La guerra dei Bepi”, “La storia infinita del Pojanistan” (People, 2020 e 2021), e il recente “Shakespeare and me” (People, 2022). Attore e autore di spessore (con respiro internazionale) e capace di una disarmante schiettezza, Pennacchi è oggi uno dei volti più apprezzati del teatro e del cinema italiano, aggiungendo un pizzico di intelligenza anche alla televisione.

Andrea, come si inserisce il teatro italiano sulla scena europea?

Vedo un forte scambio a livello di formazione. Ci sono iniziative europee molto belle che portano a relazioni interessanti, soprattutto con l’Europa orientale. I grandi movimenti e i progetti condivisi di teatro di ricerca o di innovazione li vedo più fermi, mentre c’è una buona “esportazione” di Commedia dell’Arte e di abilità circensi, rispetto alle quali però c’è uno scambio con altri paesi che vantano una scuola di tradizione. Invece la Commedia è un patrimonio che portiamo nel mondo, perché lavorando sulle maschere, anche nella sua espressione più intellettuale o filologica, comunque rappresenta un esperimento interessante. È allo stesso tempo un teatro molto arcaico e molto pop. E poi lavorare sulla Commedia dell’Arte è affascinante perché deve per forza funzionare qui e ora. Ecco perché – tornando alla formazione – ci sono molti giovani europei che vengono in Italia soprattutto per studiare quella che è la nostra specialità.

Come si costruisce invece una maschera contemporanea? 

Nella mia esperienza la maschera è una cosa che viene da te. Ovviamente non parliamo di Pantalone, Arlecchino e delle maschere della tradizione, che devi studiare per costruire la tua professionalità attoriale.

Parliamo invece di “maschere” come Fantozzi o come il tuo Pojana…?

Esatto. Fantozzi (per parlare di quello più famoso) è una cosa che viene da te e dopo un po’ ti accorgi che quel personaggio divertente che hai creato in realtà ha una profondità superiore rispetto alla macchietta o alla battuta da cabaret. È un’espressione che affonda le sue radici in una società e ne svela i lati oscuri. Improvvisamente ti accorgi che hai una maschera che funziona. Lo stesso è accaduto con Pojana. Franco Ford detto Pojana era nato nel 2014. Era il ricco padroncino di un mio adattamento delle “Allegre comari di Windsor” ambientato in Veneto, con tutte le sue fisse: le armi, i schei e le tasse, i neri, il nero. La prima evoluzione deriva dalla proposta della banda di Propaganda Live, che l’ha voluto sul palco in Tv. Ecco, da allora continua ad evolversi, si adatta a un presente che non manca di offrire spunti tragicomici.

Dove stanno le radici?

Volendo trovare una traccia comune nella tradizione della maschera, si torna ai drammi sacri di prima della controriforma, nei quali i dèmoni in scena vestivano grandi mascheroni da demone, appunto, e facevano ridere e spaventavano, ma dicendo delle grandi verità. La gente li ascoltava ed era la parte “creativa” di un culto. Lo stesso accade adesso: ci sono maschere, ogni tanto anche in televisione, che non sono la macchietta nata per far ridere o un personaggio superficiale, ma ti dicono: ‘sto parlando anche di te’. Come artista, con le mie maschere scelgo di parlare dei problemi e della nostra società e di riderne in maniera condivisa, nella speranza che poi qualcuno risolva anche questi problemi…

Tu hai detto che il Pojana è un demone di basso rango, non è potente, e allo stesso tempo che non è meschino ma ha una sua dignità. Cosa intendi?

Quando lo definisco un demone intendo che non è un uomo piccolo, come ce ne sono tanti. Ha una sua grandiosità, una sua cosmologia e una sua filosofia anche. Però è uno di quei piccoli demoni interessati a uscire dall’inferno più possibile, a stare meglio possibile, a tentare gli esseri umani per acquisire più energia. E alla fine gli interessano ‘sti umani, anche se in maniera negativa. Ecco, questo vale anche per il Pojana: non è cattivo, ma è chiuso dentro il suo mondo. Non è vero che questo lo renda piccolo, lo rende prigioniero dei propri stereotipi e probabilmente se fosse libero sarebbe più grande.

Pennacchi in Europa. Qual è stato e qual è oggi il tuo rapporto con questa grande casa che ci accomuna?

Io sono profondamente europeo. Tanto che, ad esempio, la Gran Bretagna a me manca e mi dispiace che siano andati via, perché in fondo sono un po’ come quei cugini che ti fanno arrabbiare ma poi ti mancano. Per me un’Europa forte e unita anche culturalmente sarebbe un elemento di salvezza mondiale. A livello culturale c’è una ricchezza infinita, perché ogni singolo paese d’Europa ha qualcosa di comprensibilmente e visibilmente europeo e però con delle peculiarità che lo rendono unico, come accade per il teatro o il cibo. Tutti hanno qualcosa da dare di arricchente e io mi sono nutrito di tutte queste cose, per cui mi piacerebbe riprendere a viaggiare attraverso il vecchio continente come ho fatto quando ero più giovane. Sono appassionato di letteratura e di parole da ogni territorio e da ogni tradizione. Peraltro ho avuto la fortuna di abitare a Praga per un periodo e di conoscere autori della parte orientale dell’Europa.

Esistono esperienze o legami con la Polonia?

In realtà non ho esperienze specifiche, non ci sono mai stato. Ho un carissimo amico d’infanzia che ora vive e lavora a Cracovia; ogni tanto mi invia foto molto belle e spero di riuscire prima o poi a raggiungerlo.

Parlando di Polonia e formazione teatrale non possiamo non citare Jerzy Grotowski…

Certo, però negli anni in cui Grotowski era al culmine del suo percorso lavorativo non c’ero. Ho invece avuto la fortuna di essere invitato al suo Workcenter di Pontedera e lì ho visto una delle cose più raffinate e più toccanti di cui ho fatto esperienza nella mia vita. Solo che non era teatro, perché ormai la sperimentazione dell’ultimo Grotowski andava verso dinamiche simili a un culto. Il percorso di ricerca era più simile a quello dei dervisci, avvicinandosi dunque a una forma di contemplazione mistica e quasi religiosa, ma aveva completamente perso la dimensione teatrale cioè non era più rivolta verso un pubblico. Eppure per me è stata un’occasione molto importante, perché ho capito che il teatro poteva avere anche quella profondità lì e di questo sono molto grato a Grotowski. Lavorando nel teatro, infatti, impari che si deve aver a che fare con i biglietti e i borderò e la burocrazia, ma non si può non avere a che fare con lo spirito, con l’anima, altrimenti il teatro diventa cose che uno dice su un palco. Invece il teatro è una cosa sacra e questo non lo dimenticherò mai.

In questo scenario come si colloca il tuo lavoro su Shakespeare?

Per me Shakespeare, sul quale sto lavorando in questo momento, rappresenta un grande collante per l’Europa. Nel suo percorso autoriale ha incontrato tutti i grandi fermenti che hanno reso importante il vecchio continente nel Seicento, ha preso i fermenti artistici e gli insegnamenti dei grandi pensatori, portandoli nei suoi testi. Sono fermenti che ancora agitano questo continente e infatti il mio sogno sarebbe fare uno spettacolo a partire da Shakespeare e portarlo in giro per l’Europa… per esempio in Polonia. (ride)

E poi torniamo a Omero che ha gettato le fondamenta…

Senza Omero non c’era Shakespeare, senza Omero non c’è l’Europa. Ne sono convinto, non lo dico per vezzo. Per secoli il curriculum base di tutti gli intellettuali erano i poemi omerici. Sì, poi c’è l’Eneide (che è una sorta di bignami…) ma alla fine tutto torna all’Iliade e all’Odissea.