Le lezioni di Italo Calvino per il XXI secolo

0
159
Italo Calvino, Oslo 1961, fot. Johan Brun; https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/

Non so se Wisława Szymborska, premio Nobel polacco per la letteratura nel 1996, poetessa, ma anche avida e sofisticata lettrice che divorava libri in un batter d’occhio, abbia mai preso in mano le opere di Italo Calvino. Sicuramente la scrittrice non ha mai dedicato a questo eminente autore del Novecento italiano nessuno dei suoi brillanti saggi, in cui ha parlato della propria e soggettiva scelta di letture e di testi, a volte più a volte meno noti. Sembra, tuttavia, che la scrittura di Calvino potesse davvero affascinare e ispirare Szymborska, data l’ironia e la leggerezza che lo caratterizzava. Sono questi, infatti, i due aspetti della letteratura che, in modo non scontato e, allo stesso tempo, estremamente netto, potrebbero accomunare queste due figure. La leggerezza la intendo qui seguendo l’interpretazione fornita dall’autore stesso all’interno delle sue “Lezioni americane” (1988), una raccolta di interventi che egli avrebbe dovuto tenere durante una serie di conferenze presso l’Università di Harvard. Purtroppo questo progetto non è stato mai realizzato a causa della morte improvvisa di Calvino nel 1985.

La leggerezza, sostiene lo scrittore, è qualcosa che spinge il pensiero a colpire nel segno, a farsi meno pesante, ma non con l’intenzione di scomparire, bensì con quella di raggiungere la propria meta nel modo più veloce e più effi cace possibile. Scrivere con leggerezza signifi ca anche evitare l’astrazione, sostituendola con una elaborata e studiata precisione del linguaggio, dello stile, della descrizione. La precisione invece, come sottolineava già nel secolo scorso il nostro autore-visionario, è una delle chiavi con cui dovremmo andare incontro alla realtà del XXI secolo.

Elencando i vari modi di affrontare il mondo, Calvino non smette mai di sorprenderci, esprimendosi costantemente con la sua pacata e sofisticata ironia. È quindi importante, secondo l’autore, imparare le poesie, poiché sono proprio le opere in versi, registrate e ripetute, a dover accompagnarci costantemente, sviluppando la nostra memoria e assicurando che quest’ultima non scompaia mai. Lo stesso Calvino, tra l’altro, amava la poesia, così come il racconto: due forme letterarie sostanzialmente brevi e ritmate alle quali egli stesso ha dato voce ad esempio in “Marcovaldo, ovvero le stagioni in città” (1963) o ne “Le cosmicomiche” (1965). Quest’ultima raccolta costituisce anche un omaggio al rapporto tra letteratura, scienza e mito, questioni che per lo scrittore non si escludono, non entrano mai in competizione e, tanto meno, in conflitto tra di loro. Si tratta insomma di un approccio comprensibile per un autore nato e cresciuto in una famiglia di matematici e botanici (non solo i genitori di Calvino, ma anche i suoi parenti più lontani si occupavano di scienze esatte), ottenendo già in giovane età una sorta di imprinting che influenzò in modo decisivo il suo approccio al lavoro e alla propria attività letteraria. Calvino, pur dedicandosi inizialmente a studi scientifici, non orientò però mai la sua carriera in questa direzione e nel 1947 discusse la sua tesi di laurea dedicata all’autore inglese di origine polacca, Joseph Conrad. Il fascino per la scienza, tuttavia, rimase un sentimento e un elemento che accompagnò sempre lo scrittore e la sua opera e che si manifestava, ad esempio, in una costante necessità di controllare la narrazione. In effetti, quella di Calvino, lo “scoiattolo della penna” come lo definì Cesare Pavese rimasto fortemente colpito dal suo primo romanzo, non è una narrazione che esplode all’improvviso e che scorre liberamente abbandonandosi inconsapevolmente ai meandri del flusso di coscienza, ma si basa su un lungo ed equilibrato studio della parola. Non a caso un importante modello di scrittura per l’autore ligure, a prescindere dalle fasi che la sua stessa opera abbia attraversato, rimase sempre Galileo, scienziato e, al contempo, narratore, così come Giacomo Leopardi con le sue “Operette morali” e il loro stile scolpito con cura e precisione.

Non c’è da stupirsi dunque che il successivo e apparentemente banale consiglio, che dovrebbe servire come un’ulteriore chiave per comprendere il mondo moderno, di Calvino, grande amante delle scienze esatte, sia di stampo “matematico”. Si tratta dell’atto di fare i calcoli, anche quelli più complessi, a memoria, scrivendo a mano, su un pezzo di carta. Ciò consente, secondo Calvino, di imparare a superare l’eccessiva astrazione, la mancanza di limiti e di cornici, nonché l’esorbitante fluidità che, a loro volta, portano alla scomparsa di ogni essenza delle cose. Quanto anticonvenzionali e, al tempo stesso, quanto attuali paiono le linee guida di questo autore, considerato l’ultimo classico nella storia della letteratura italiana (come lo definì enfaticamente lo studioso e amico Alberto Asor Rosa), di cui quest’anno si festeggia il 100 anniversario della nascita (così come, tra l’altro, della già menzionata Szymborska).

L’ultima raccomandazione di Calvino che riassume e, contemporaneamente, mette in discussione, in parte ironicamente, i due consigli precedenti, riguarda la consapevolezza che tutto ciò che abbiamo raggiunto e ottenuto ci può essere tolto da un momento all’altro. Ciononostante, l’obiettivo di questa affermazione, come sottolinea lo scrittore, non è quello di suscitare rassegnazione, ma di “non farsi mai troppe illusioni” (per citare “La giornata di uno scrutatore” [1963]), nonché di richiamare l’attenzione al fatto che tutto ciò che abbiamo, anche se ci sembra concreto, nitido e ben definito, potrebbe improvvisamente allontanarsi e scompare, inghiottito, come ci dice lo stesso autore, da una nuvola di fumo.