Fin dall’antichità le città costiere furono privilegiate rispetto a quelle continentali perché potevano intraprendere scambi commerciali più rapidi e remunerativi via mare con gli altri porti.
Ma dal 1348 sulle rotte mediterranee cominciò a viaggiare una clandestina foriera di morte: la peste, che proveniva dai focolai sempre attivi del Kurdistan iraniano e del Basso Volga che si estendeva agli Urali, al Caucaso e al Mar Caspio. Fra i vari imprevisti della navigazione (fortunali, attacchi dei pirati, avarie degli scafi…) il peggiore fu costituito dalla peste a bordo perché alla nave veniva impedito l’ingresso nei porti che nonfossero attrezzati con lazzaretti in grado di accoglierla attuando le opportune pratiche di isolamento e di espurgo.
Se l’equipaggio veniva decimato dalla peste, diventava difficile persino pilotare la nave e aumentavano esponenzialmente anche le probabilità di naufragare. Così accadde a capitan Rebatu che, dopo aver perduto per la peste sei marinai, naufragò nelle acque di Alessandria il 28 gennaio 1769.
Il Magistrato alla Sanità della Repubblica di Venezia stampava e distribuiva dei proclami destinati a tutti i porti, anche concorrenti e nemici, nei quali forniva informazioni sulle navi appestate, descrivendo sugli scali che avevano toccato con la possibilità di averli contagiati, e segnalando il lazzaretto cui erano approdate con indicazioni sull’inizio e sulla fine della loro contumacia. Così avvenne il 28 giugno 1760, quando un proclama a stampa diramò la notizia che la polacca comandata dal francese capitano Billon era partita da San Giovanni d’Acri dove c’era la peste. La nave giunse a Marsiglia, dopo aver perso parte del suo equipaggio. Venezia sospese la “libera pratica”, cioè ogni contatto con il porto di Marsiglia fino al 26 novembre 1760, quando diffuse la notizia della scomparsa del pericolo.
Un esempio della capacità operativa degli informatori veneziani è fornito dalle segnalazioni anche degli assalti corsari che moltiplicavano le occasioni di infezione. Va precisato che, a differenza dei pirati che agivano in proprio, i corsari erano sostenuti dalle nazioni che li pagavano perché depredassero e indebolissero i loro nemici. La nave corsara inglese “Neptune” nel 1760 attaccò la nave francese “La Sacre Famille”, proveniente dalla città appestata di San Giovanni d’Acri e diretta a Livorno e poi a Marsiglia. Gli inglesi presero, oltre al bottino, anche la peste che uccise numerosi marinai. Il Magistrato alla Sanità veneziano sospese la “libera pratica” con i porti di Livorno e di Marsiglia e segnalò a tutte le nazioni mediterranee che il legno francese era riparato a Malta.
Il rischio mortale che si correva imbarcandosi su una nave appestata era ben noto, come testimoniano gli altissimi compensi offerti ai marinai ingaggiati per condurla in un porto attrezzato per le operazioni di espurgo. Le navi che battevano bandiera occidentale, se contagiate, cercavano di raggiungere un lazzaretto europeo, ma quelle che partivano dai più lontani scali orientali erano costrette ad affidarsi ad un porto del Levante, infatti avrebbero perso troppo tempo nel ritornare nel Mediterraneo occidentale, per poi dirigersi ancora verso il Mediterraneo Orientale dove riprendere la loro attività.
Oltre alla preoccupazione per le vite umane, la peste a bordo comportava anche il rischio di perdere il carico e lo scafo per il naufragio della nave o per le conseguenze di contumace scontate in luoghi aperti, non protetti da furti, pirati e intemperie. Con reiterate lettere di protesta i mercanti minacciarono i Rettori di Corfù di abbandonare quello scalo per trascorrere la contumacia in luoghi più protetti, se non si fosse provveduto a creare strutture e rifugi sicuri. Per non perdere i mercanti e per non rallentare gli scambi, la Serenissima attrezzò i suoi lazzaretti in siti strategici lungo le coste Dalmate e le Isole Ionie, che funsero da filtro sia alle navi provenienti dal Levante, che alle carovane che giungevano via terra dai paesi Ottomani per imbarcare le loro merci per Venezia. I costi della sosta, più o meno prolungata, e delle pratiche di espurgo delle navi, erano sostenuti dai proprietari delle mercanzie e dai passeggeri che usufruivano delle strutture di isolamento e che, prima di lasciarle, dovevano saldare il conto.
Nel corso del Settecento, gran parte delle navi, che traportavano merci sulle rotte orientali o collegavano gli scali orientali a quelli occidentali, erano veneziane, guidate da personale veneziano, ma affittate da mercanti dell’impero Ottomano con contratti stipulati dai consoli veneziani presenti nelle città più importanti. La peste, scoppiata in una di queste navi, creò un conflitto fra Venezia e Tunisi. Tutto cominciò quando due mercanti tunisini, il 22 marzo 1781, stipularono presso il consolato veneziano di Alessandria il contratto di affitto del vascello ”Buona Unione” del capitano veneziano Gerolamo Padella per il trasporto delle loro merci da Alessandria a Sfax, con scalo a Djerba. Il capitano, ammalato di peste fin dalla partenza, in breve morì. Lo sostituì il figlio Giovan Battista, che propose di tornare ad Alessandria o di raggiungere i porti attrezzati di Rodi o di Cipro, ma i mercanti gli imposero di portarli alladestinazione pattuita. Giunti a Cerigo, anche l’isola veneziana rifiutò di accoglierli, nel frattempo erano morti 4 membri dell’equipaggio e 10 dei 18 passeggeri tunisini. Il capitano puntò sul lazzaretto di Malta dove i sopravvissuti vennero messi in contumacia e la nave e le merci furono bruciate. L’incidente commerciale sfociò in un conflitto internazionale quando i mercanti chiesero, attraverso il bey di Tunisi, il risarcimento dei danni a Venezia, anche se erano stati proprio loro a non voler far condurre tempestivamente la nave in un lazzaretto. Dopo una lunga quanto vana trattativa, la Repubblica dichiarò guerra e attaccò Tunisi con la squadra navale capitanata da Angelo Emo.Correva l’anno 1784.
Venezia, che era rimasta estranea ai conflitti europei, ruppe la sua neutralità per un fatto che sembra privato e fortuito ma che, invece, avrebbe creato un precedente pericolosissimo, imputando gli oneri della perdita delle mercanzie non ai mercanti, alle loro assicurazioni e bandiera, ma al capitano della nave e alla sua bandiera. Il caso rischiava di compromettere i trattati commerciali fra Venezia e i Cantoni Barbareschi, le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli che, al servizio dell’impero Ottomano praticavano la guerra di corsa a danno delle potenze cristiane. La Serenissima, piuttosto che subire gli attacchi corsari, aveva preferito siglare degli accordi di non belligeranza versando ai Barbareschi da 10.000 a 12.000 ducati l’anno, per garantire la sicurezza della navigazione sulla quale aveva costruito la ripresa della sua attività mercantile. L’affaire della nave veneziana, bruciata con le mercanzie tunisine, e la controversia sull’indennizzo compromettevano gli accordi internazionali perciò, quando la diplomazia non poté più garantirli, si ricorse alla guerra. Una guerra poco proficua, conclusa in fretta nel 1792, mentre in Europa la Rivoluzione Francese stava modificando i vecchi regimi e presto avrebbe travolto anche quello della Serenissima.
Per approfondimenti: Rotte mediterranee e baluardi di Sanità, a cura di N.E.Vanzan Marchini, Milano-Ginevra 2004.