“Pantafa” è il nuovo film con Kasia Smutniak che la casa di produzione italiana Fandango sta realizzando in Abruzzo, la terra dell’oro giallo, il prezioso e profumato zafferano. Ed è in una pausa tra una ripresa e l’altra che intervistiamo l’attrice polacca ormai diventata una delle indiscusse icone del cinema italiano.
Immersa nel quieto Abruzzo bucolico che effetto ti fa la tumultuosa attualità socio-politica polacca?
Seguo con grande attenzione quello che succede nel mio Paese. Devo dire che sono colpita favorevolmente dal messaggio che arriva dalle migliaia di persone che scendono nelle strade a protestare per i loro diritti. Sta tornando la fiducia nel valore della collettività, ci si riunisce per cambiare la società, si condivide una posizione e la si manifesta. È un segnale positivo che non vedo in Italia dove ci si lamenta di tante cose ma, forse, si è troppo disillusi per credere che manifestando uniti si possa veramente cambiare il mondo che ci circonda.
Le proteste in corso in questi mesi organizzate dall’Ogólnopolski Strajk Kobiet (Sciopero Generale delle Donne) hanno portato nelle strade tanti diversi contenuti sociali, dal diritto all’aborto, ai temi LGBT, alla questione dei rapporti Stato-Chiesa. Manifestazioni molto partecipate dai giovani e arricchite da una incredibile fantasia e ironia di slogan. È in arrivo un tardivo 1968 in Polonia? Dopotutto il movimento sessantottino nei paesi comunisti non ebbe possibilità di influenzare pienamente la società e una volta caduto il Muro di Berlino le priorità economiche misero in secondo piano valori e diritti sociali.
Ottima analisi e bella domanda. Io da piccola ho fatto in tempo a vivere gli ultimi anni del comunismo e l’arrivo del capitalismo. È stata una ubriacatura di colori e di cose, siamo passati dal non aver nulla al poter avere tutto. Uno scossone che ha creato spaesamento e che ha spinto il Paese a rincorrere passivamente i modelli occidentali senza vaglio critico. Abbagliati dal mito americano e dalla globalizzazione abbiamo voluto omologarci troppo in fretta. Ora forse dopo qualche anno di corsa cieca cominciamo ad aprire gli occhi e a capire che rischiamo di perdere un pezzo della nostra identità. Riguardo al ruolo delle donne abbiamo fatto passi indietro. Quando giovanissima sono andata in Italia, pur arrivando da un Paese in cui la vita non era certo spensierata e ricca, ero comunque fiera di raccontare la posizione emancipata delle donne polacche. Mia nonna era una militare, mia madre una infermiera, tutte le donne lavoravano e in qualche modo la società doveva occuparsi della gestione dei figli. Io tornavo a casa da scuola e restavo sola, non esistevano baby sitter. Ecco in quella dimensione non c’era spazio per la donna casalinga e non c’erano dubbi sulla parità di diritti e doveri tra uomo e donna. L’Italia anni fa era più arretrata della Polonia su questi temi, ora la situazione si sta invertendo.
Sei madre di due figli, quanto è difficile essere genitori oggi in una società liquida in cui ci sono poche certezze, tanto individualismo e in cui l’eroismo è riuscire a stare a casa per non rischiare il contagio da Covid?
Credo che ci siano eroi anche oggi, certo si tratta di eroismi diversi dai modelli ideali che avevamo noi. Viviamo in un’epoca complessa, per me chi oggi si impegna in politica anche solo per cambiare qualcosa nel suo quartiere è un eroe, così lo sono le migliaia di persone che si organizzano per manifestare e difendere diritti individuali e collettivi. La società oggi non è più così lineare, non c’è una chiara dicotomia tra bene e male, è difficile approcciarsi ai giovani limitandosi a ripetere quelli che una volta era i canoni educativi consolidati ovvero il valore dello studio per avere un lavoro migliore, fare una famiglia e vivere tranquilli. Quello che cerco di dare ai miei figli è una apertura mentale che gli consenta di essere preparati alle imprevedibili evoluzioni della società. Li faccio viaggiare, li ho portati in Nepal dove da anni porto avanti un progetto di impegno socio-educativo, e queste esperienze sicuramente li arricchiscono e allargano i loro orizzonti. Cerco anche di insegnarli che al mondo non viviamo da soli, è importante saper convivere e condividere pensieri ed emozioni con chi ci sta vicino perché la felicità è proprio nella condivisione.
Nel film “Perfetti sconosciuti”, di cui sei stata protagonista sia nella versione italiana sia nel remake polacco, il telefono rappresentava lo scrigno dei nostri segreti, ma in realtà il cellulare è sempre più il canale attraverso cui siamo bombardati 24 ore al giorno di comunicazioni commerciali e di una babele di notizie in cui con difficoltà distinguiamo la verità dai fake. Corriamo il rischio d’essere mentalmente hackerati?
Sì, questo è un problema di grande attualità. Siamo sommersi da innumerevoli idiozie, da negazionismi, terrapiattismi e complottismi, a fatica riusciamo a separare i fatti dalle interpretazioni spesso fuorvianti che ne danno. E questa è la maggiore differenza rispetto agli anni in cui sono cresciuta, epoca in cui il rosso era rosso, il nero era nero, un tramonto era solo e invariabilmente un tramonto. Oggi l’aspetto più pericoloso è la perdita della memoria storica, in questo sensoavere dei docenti di storia preparati e onesti intellettualmente è un grande valore, attualmente mi preoccupa come possa essere insegnata la storia nelle scuole polacche.
Il cinema polacco però è in gran salute, c’è un’ondata di bravi registi che toccano tematiche importanti.
Le ondate artistiche sono cicliche e spesso sono scatenate dall’esigenza di esprimere qualcosa di forte, di raccontare ingiustizie sociali e problemi individuali. Una volta registi come Wajda e Kieslowski esprimevano determinati malesseri, oggi Komasa e Szumowska, per citarne due tra tanti, ne esprimono altri. Apprezzo molto i registi polacchi che in questi anni hanno la forza e il coraggio di trattare temi scomodi e, spesso, quando fai un film che sai che potrebbe essere indigesto ad una fetta di società allora lo fai ancora meglio.
Un coraggio che a te certo non manca. Hai mostrato senza filtri di avere la vitiligine, un gesto che avrà sicuramente dato forza a tanti che ne sono colpiti.
Bè se con questo gesto ho dato un pizzico di serenità anche ad una sola persona ne sono felice perché anch’io, da quando soffro di vitiligine, avrei avuto bisogno di incontrare qualcuno capace di darmi la forza e la tranquillità interiore per affrontare questo problema. La vitiligine è un fastidio estetico che crea insicurezza, più verso sé stessi che nei confronti degli altri o del lavoro. Anzi io lavoro sempre di più, le macchie si possono coprire con il trucco. Il problema è che ti guardi allo specchio e pensi a quando non avevi le macchie e questo indubbiamente ci disturba. Un giorno però mi sono alzata e ho pensato “questa sono io”, queste macchie sono la mia storia. Una malattia psicosomatica ti obbliga a riflettere su di te, sul tuo percorso di vita e quella che sono io oggi è il frutto di una maggiore conoscenza e consapevolezza di me stessa. Qualcuno scarica lo stress quotidiano sulla pelle e ha la vitiligine, altri hanno attacchi di panico o malattie più gravi. La cosa strana è che io che non sono certo una patita dei social ho trovato in Instagram la forma più semplice per liberarmi di questo peso, mostrare e raccontare questa patologia con parole mie, senza filtri, un gesto liberatorio che mi ha rasserenato, e se questo ha dato tranquillità anche a qualche altro compagno di questa malattia allora ho raggiunto un duplice scopo, privato e sociale.
Tra i diversi ruoli che hai interpretato qual è quello che ti è più affine?
Guarda ogni produzione significa mesi o anni di lavoro. Sul set i tempi sono infiniti, a volte mi annoio e non vedo l’ora di tornare a casa. Quindi diciamo che più che cercare interpretazioni in cui mi sento a mio agio sono attratta da ruoli diversi e lontanida come sono io, cerco sfi de nuove che mi diano quella curiosa inquietudine che mi spinge a mettermi alla prova, a imparare qualcosa di nuovo e a non annoiarmi sul set.
Il cinema come ne uscirà dalla pandemia?
Sicuramente cambiato. Non nei temi ma nella chiave espressiva, un po’ come è avvenuto nella musica dove i pezzi sono diventati più brevi e hanno eliminato le intro. Io preferisco i film alle serie ma mi rendo conto che l’utenza sta cambiando, non sono più tutti romantici come me che amano il rito dell’andare a vedere un film al cinema. Pensa a quanta differenza c’è tra lo scegliere di uscire per andare al cinema e sedersi in sala in mezzo alla gente senza usare il telefono e obbligati a guardare tutto il film, anche se non piace, e lo stare in divano e dare ad un film una chance di attenzione di 15 minuti per decidere se continuare a vederlo o cambiare canale, film o serie tv. Comunque non bisogna aver paura dei cambiamenti, da temere sono i momenti di stasi. Così nella quotidianità guardo positivamente chi si mette in gioco coinvolgendo altre persone per portare avanti un obiettivo comune, mentre mi preoccupo quando vedo prevalere l’indifferenza.
In Italia la situazione è più statica rispetto alla Polonia?
Noi polacchi la rivoluzione ce l’abbiamo nel DNA, in Italia c’è un approccio diverso. A fine novembre abbiamo pranzato in giardino, al sole, tagliatelle al tartufo, ecco al di là di qualsiasi interpretazione sociologica penso che qui, nonostante ci siano tanti problemi, la gente sta comunque bene, si fa fatica a far rivoluzioni con questo clima e avvolti da tanta bellezza.
foto: Giorgio Codazzi, Andrea Pattaro