Nel 1975, quando a Varsavia si organizza una corposa retrospettiva sul grande regista Michelangelo Antonioni, Leszek Kazana è un liceale innamorato dell’Italia, tifoso del Legia e del Milan e appassionato di storia antica. Stravede per il cinema e viene a sapere di poter essere utile ad un’icona della storia del cinema italiano.
Leszek Kazana: Per fortuna rispose al telefono mio padre! Se avesse alzato la cornetta mia madre avrebbe detto di no perché dovevo andare a scuola. Conoscere Antonioni fu un’esperienza indimenticabile che si aprì con il mio imbarazzo al primo incontro che il regista capì al volo e disse “tu mi ammiri molto vero?”. Risposi “sì” e lui “capisco, ora però traduci!”. In quei giorni mi sembrò di aver familiarizzato al punto di arrischiarmi a chiedergli come si fa a lasciare una donna come Monica Vitti. “Non sono cose che ti riguardano!”, ribatté Antonioni. Ma a parte questo episodio il regista di “Professione reporter” con me non fu affatto gelido come lo descrivevano tanto che l’ultimo giorno si rese conto della mia infinita tristezza per la sua partenza. Non nascondo che mi scendeva qualche lacrima. Antonioni si sciolse il nodo della cravatta e me la regalò dicendo “però usala ogni tanto”.
Riavvolgiamo il nastro, l’Italia com’era entrata nella tua vita?
Stavo per andare in prima elementare quando mio padre assunse un incarico diplomatico nella bella sede dell’Ambasciata di Polonia a Roma in via Rubens ai Parioli. Nella città eterna restammo dal 1965 al 1969, quattro anni di scuole elementari da cui uscii col diploma perché l’ultimo anno feci quarta e quinta insieme con, il per me indimenticabile, maestro Arduino Cappelloni, poliglotta, appassionato di storia e laureato in giurisprudenza, cui devo un sacco di meravigliosi e formativi ricordi.
Ma perché un bambino polacco che ama il calcio arrivato a Roma si mette a tifare Milan?
Eravamo appena arrivati a Roma. Non avevamo ancora la televisione e quando i nostri vicini Roberto e Marisa Mignani, che sarebbero diventati i nostri migliori amici per sempre, aprono la porta, sento provenire dall’interno della casa una voce tipica da telecronaca di una partita i calcio. Senza badare a timidezze mi precipito davanti alla tv. Dopo un po’ pur non parlando italiano mi faccio capire e chiedo chi è quel giocatore col numero 10? “Gianni Rivera” mi risponde Roberto. Fu amore a prima vista per Rivera e di conseguenza per il Milan che quell’anno, allenato da Silvestri, fece un campionato mediocre. Poi arrivò Nereo Rocco in panchina e potei gioire per scudetto, Coppa delle Coppe e soprattutto Coppa Campioni, vinta 4-1 sull’Ajax del giovane Johan Cruijff. A raccontare le gesta in tv di quel Milan era Nicolò Carosio che fondamentalmente rimase sempre un radiocronista e per quello gli si concedeva di dire “quasi-gol” anche quando la palla passava ben lontana dalla porta, oppure “bolide di Rivera”, ossimoro dato che la potenza del tiro non era certo una qualità del grande genio del calcio italiano.
Tempi in cui la nazionale polacca stava scaldando i motori per esplodere qualche anno dopo?
La Polonia non riuscì a qualificarsi ai Mondiali del 1970, quelli che l’Italia doveva vincere ma che perse in finale forse per l’incapacità di Valcareggi, peraltro straordinario allenatore, di far coesistere Rivera e Mazzola. Nel 1972 vincemmo però le Olimpiadi che in pratica erano i mondiali dei paesi dell’area comunista e nel 1974 eliminammo l’Italia ai Mondiali in Germania, una squadra azzurra con fuoriclasse ormai d’annata mentre la Polonia se avesse avuto Lubanski stravedevo per lui come per Rivera a mio avviso li avrebbe vinti quei Campionati.
Finito l’incarico diplomatico di tuo padre tornate a Varsavia e tu continui a studiare l’italiano?
La mia passione era la storia antica e, come si usava a quei tempi, per essere un buono storico bisognava studiare prima le relazioni del potere, ovvero giurisprudenza, e poi storia e così feci laureandomi in legge con uno dei più grandi antichisti polacchi: Henryk Kupiszewski. Poi tornai a Roma per la specializzazione alla Sapienza. Nel frattempo l’Italia e l’italiano erano rimasti parte della nostra vita familiare e ricordo con quanta bramosia attendevo i quotidiani italiani, peraltro vecchi di almeno un mese, che papà portava ogni tanto a casa, mentre le domeniche scappavo dai nonni a Góra Kalwaria dove avevo scoperto che si ricevevano meglio le onde medie della radio e potevo ascoltare le voci di Ciotti, Ameri e degli altri mitici radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto”. L’Italia mi mancava, per sette anni non potei tornarci fino al 1976 quando grazie ad una borsa di studio dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia andai nel Bel Paese. Mi resi conto di conoscere il cinema mondiale non peggio dei miei coetanei cinefili italiani. Negli anni ’70 i film d’oltrecortina arrivavano in Polonia spesso con molto ritardo ma senza tantissime eccezioni. Ironia della sorte l’unico film di Fellini che non è stato distribuito nelle sale polacche è stato “La voce della Luna”, perché, caduto il comunismo, i distributori privati non si arrischiarono di comprarne i diritti.
Tornato dalla specialistica alla Sapienza hai iniziato a insegnare?
Erano anni tumultuosi. Dopo l’89 lavorai per un periodo all’italian desk del Ministero degli Affari Esteri ma poi, piano piano, mi sono dedicato integralmente all’insegnamento della storia e dell’italiano oltreché alle traduzioni.
In tanti anni di frequentazioni delle istituzioni italiane in Polonia c’è qualcuno che ricordi con particolare piacere?
Da Mario Mondello (anni ‘70) in poi ho conosciuto tutti gli ambasciatori e parallelamente anche i direttori dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia succedutisi negli anni, tra questi Teresa Triscari Ilardo, Pier Angelo Cappello, Giulio Molisani, Paola Ciccolella, Roberto Cincotta. Ho ottimi ricordi di tutti. Degli ambasciatori italiani ricordo in particolare Luca Biolato che era stato in precedenza a Varsavia come segretario e che, quando alla fine della sua carriera gli lasciarono scegliere la destinazione, volle essere ambasciatore in Polonia. Una persona, sepolta nel cimitero varsaviano Powazki, cui dobbiamo la scelta felice dell’acquisto della splendida sede attuale dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia. Fu proprio Luca Biolato a dirmi che capitava anche a italiani intelligenti di lamentare la destinazione in Polonia, ma solo gli stupidi potevano lasciarla senza rimpianti. La Polonia ti resta dentro. Si racconta che il grande traduttore della Szymborska, Pietro Marchesani, durante le sue lezioni alla facoltà di polonistica di Genova a volte mentre parlava si fermava e taceva per qualche minuto, poi riprendeva dicendo agli studenti “scusatemi, per un momento mi sembrava d’essere a Cracovia o forse a Varsavia.“
Italia-Polonia nel tuo caso si declina Roma-Varsavia?
Non nascondo che è solo in queste due città che mi sento a casa. Se sono a Bologna o a Cracovia, a Venezia o a Breslavia, sto bene ma non a casa mia. Di Varsavia amo molto l’energia e l’offerta culturale che mediamente è più alta di tante capitali europee e poi ritengo sia anche bella con tanto verde tra cui il più bel parco urbano d’Europa: Łazienki.
Se ti chiedessi di suggerirci alcuni nomi di scrittori e registi italiani?
Quest’estate paerto per le vacanze portandomi “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese e “Il cavaliere e la morte” di Leonardo Sciascia, libri di autori straordinari che rileggo regolarmente. Nel cinema oltre ad Antonioni voglio citare Federico Fellini, soprattutto quello di “Roma”, “Amarcord” e “8 e mezzo”, Luchino Visconti e Mario Monicelli, che ebbe il particolare merito di far uscire Monica Vitti dai ruoli in cui l’aveva inquadrata Antonioni. Poi amando i film di taglio politico non posso non ricordare Francesco Rosi. Nella musica Paolo Conte, che sogno di vedere un giorno in concerto in Polonia e Gianmaria Testa che nel 2007 Pier Angelo Cappello riuscì a portare a Varsavia.
E polacchi?
Nel cinema i grandi della scuola polacca: Wajda, Munk, Kawalerowicz, i capolavori di Roman Polański da “Il coltello nell’acqua” all’ultimo film sull’affaire Dreyfus che ho già visto tre olte, i trattati morali di Krzysztof Zanussi: “Le montagne al tramonto”, “La struttura del cristallo”; e da ultimo Paweł Pawlikowski. Leggo sempre Jarosław Iwaszkiewicz: immensi i suoi versi, immensi i suoi racconti. Buona parte di quelli un po’ solari fu scritta a Roma, in Sicilia o, al limite, a Sandomierz, la più italiana delle piccole città polacche. Zamość è un altro discorso.
Tra Italia e Polonia c’è un intreccio secolare continuo e profondo che forse nella società odierna andrebbe un po’ più valorizzato?
Nel 1945, dopo sei anni di tragedie e distruzioni, al grande Jan Parandowski, scrittore tra l’altro di una “Mitologia antica” che è tuttora un manuale delle medie, l’Università Cattolica di Lublino chiede di tenere un corso. Parandowski sceglie di parlare di Francesco Petrarca. A Parandowski si deve anche una magnifica definizione del nostro paese: la Polonia culturalmente si affaccia sul Mediterraneo. Una frase che sintetizza secoli di relazioni. Pensiamo alla corte reale polacca di Sigismondo il Vecchio a Cracovia, frequentata da tanti italiani. Oltre duecento anni dopo, presso la corte reale di Stanislao Augusto, a Varsavia, la situazione si ripete, il re era attorniato da artisti provenienti dal Bel Paese con cui parlava in italiano e poiché alcuni venivano dalla Repubblica Serenissima a volte parlava in veneziano, e pensare che Stanislao Augusto non mise mai piede in Italia! E poi dovremmo parlare di Padova che, accademicamente parlando, è la più polacca delle città italiane, e quindi di Copernico che studia tra Padova, Bologna e Ferrara dove si laurea in diritto canonico. Insomma la Polonia ha preso tanto dall’Italia ma ha anche dato tanto all’Italia e all’Europa la cui cultura, senza l’apporto polacco, sarebbe monca. La musica da Chopin a Penderecki, il teatro di Kantor e Grotowski, il cinema, la letteratura. Provate a chiedere a qualsiasi libraio italiano della poesia e vi risponderà che senza la Szymborska gli unici libri di poesia che vende sono quelli obbligatori a scuola. Lo scambio antico, ininterrotto e fecondo tra questi due paesi che amo è la cornice culturale cui mi sento di appartenere e quando mi chiedono se l’Italia è una scelta rispondo che lo sarebbe potuto essere ma, nel mio caso, la definirei più una storia di vita.