Lena è incinta ma non vuole o piuttosto non è pronta per diventare madre perciò viene in Italia a vendere la bambina che porta in grembo. Ermanno è un ragazzo della periferia romana che vive di piccoli furti giocandosi poi tutto quello che guadagna alle slot machine. Ermanno decide di aiutare suo zio e la moglie ad ottenere l’affidamento attraverso un’adozione tra parenti e quindi finge di essere padre della bambina. I due sconosciuti si trovano in casa insieme, vivono l’uno accanto all’altro senza bisogno di esteriorizzare niente. Tutte le emozioni rimangono dentro accumulando una massa di questioni irrisolte.
Nonostante i momenti di svolta, che cambiano l’atteggiamento di tutti e due, continuano a trattenere le emozioni non mostrando né attrazione reciproca né tutte la difficoltà della situazione. Apparentemente non succede niente ma in realtà succede tutto, nella loro lotta interiore e nel lento crescendo delle emozioni fino alla loro esplosione finale. “Sole”, il primo lungometraggio del regista romano Carlo Sironi tocca un tema attuale e importante da un punto di vista diverso, delicato e molto intimo.
“La scelta della tematica è venuta un po’ dal desiderio di raccontare il percorso di paternità in un altro modo. Ad un certo punto, per tutta una serie di vicende personali, mi sono chiesto se riuscirei mai a diventare padre di un bambino che biologicamente non è mio? È una scelta molto difficile perché l’imprinting biologico è una cosa fondamentale per un uomo per avere una sorta di immortalità. La cosa buffa di tutto questo è che all’epoca stavo lavorando ad un altro film. Ho solo ipotizzato questo tipo di storia e quando poi mi sono documentato ho capito che è assolutamente reale. Nella ricerca mi ha aiutato molto la presidentessa del Tribunale dei minori di Roma Melita Cavallo che affronta questo tema quotidianamente. È stata una strana sensazione perché l’immaginazione che ho avuto combaciava con la realtà. Ho dovuto solamente scegliere che tipo di film volevo fare: sulla tratta dei neonati, sulle false adozioni, sulla maternità surrogata, su quanto è duro quel mondo? Alla fine ho deciso di raccontare una storia molto intima. Ragionando per contrasto ho scelto di narrare una vicenda che è brutale e molto cruda in una maniera delicata e anzi paradossalmente quasi tenera.”
Dalla tua documentazione risultava che sono proprio le donne dell’est che vengono a vendere i figli in Italia?
Si, ho avuto la fortuna di accedere a delle statistiche che erano state redatte da una ong che si chiama Women East smuggling traffic. Questa organizzazione monitor tutta la migrazione dall’est Europa verso tutta l’Europa dell’ovest. La documentazione conteneva anche il reparto italiano che affrontava il discorso della tratta dei neonati in Italia. Al tempo, e stiamo parlando del 2013, il numero maggiore di donne proveniva dall’Ucraina e dalla Bulgaria. Però fra i paesi dell’est industrialmente molto sviluppati la Polonia risultava la prima e mi hanno spiegato che questo era legato alle restrizioni legislative polacche.
Il tuo modo di raccontare ha qualche ispirazione cinematografica?
Il cinema giapponese è quello che io amo alla follia, soprattutto quello degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad esempio Mikio Naruse è un regista che viene sempre dimenticato perché ha iniziato la carriera ancora ai tempi del cinema muto. I suoi film sono ritratti di famiglie, di giovani innamorati, malinconici e molto semplici. Anche se sono molto diversi dal mio film quella malinconia del cinema giapponese mi ha aiutato. Una cosa che mi piace molto del cinema giapponese che cerco un po’ di riportare è il pudore attraverso cui raccontano l’emozione cioè lo sforzo di non mostrarla. In qualche maniera volevo raccontare una storia piena di pudore. Quando ti piace una persona tu non sai in realtà come dirglielo e io cerco di cogliere quel non detto, è questa per me una cosa fondamentale.
È interessante la scelta dei protagonisti, un’attrice professionista straniera con un giovane ragazzo italiano senza nessun esperienza cinematografica, come li hai guidati per farli entrare nei loro ruoli?
Ermanno doveva essere non professionista per essere un po’ inconsapevole di quello che faceva. Un attore avrebbe troppo sottolineando tutte le cose. Lena invece la volevo più sicura con un approccio serio per questo ho scelto un’attrice professionista. Ho visto selftape di tante ragazze da quasi tutta l’Europa dell’est. Sandra subito mi è piaciuta tantissimo, già me la immaginavo nel film prima di vederla dal vivo. Però poi quando l’ho incontrata e abbiamo fatto lunghissimo provino lei interpretava il personaggio in modo completamente diverso da come mi ero immaginato ed era molto interessante. Mi è piaciuto molto quel suo tono un po’ infantile e fantasmatico, la sua leggerezza. Claudio invece era talmente identico a come me lo immaginavo che era impressionante. Era bravo, molto portato ma nello stesso tempo molto bloccato, anche fisicamente. Faceva perfino fatica a mostrare quell’emozione in più alla fine del film. Quindi abbiamo fatto tante prove e quando veniva Sandra facevamo una settimana intensiva. Solo appena prima delle riprese gli ho fatto fare un po’ di improvvisazioni che servono un po’ per sciogliersi. È stato veramente divertente lavorare con loro.
“Sole” è una coproduzione italo-polacca quindi hai passato un po’ di tempo in Polonia lavorando al film, che impressione ti ha fatto?
Ho lavorato con la compositrice Teonika Rożynek a Varsavia però abbiamo lavorato molto a casa. Comunque quando ho visitato quel poco che potevo ho pensato quanto scioccante sia stato vedere come una città europea che aveva una ricchezza architettonica e culturale importante sia stata rasa al suolo. La seconda guerra mondiale è un periodo che mi interessa molto e mi sono documentato un po’, anche sugli episodi più scabrosi, quindi sapevo che cosa era successo ma vedere dal vivo una capitale europea che è stata completamente ricostruita dopo la guerra dà una fortissima impressione emotiva. Poi è una città di una funzionalità straordinaria rispetto all’Italia. Tutto quello che dovevo fare era di una estrema facilità. A Cracovia invece ho avuto modo di girare senza fine ed è una città meravigliosa, con quell’atmosfera bohemienne e un miscuglio di diversi stili architettonici ti fa sentire a casa. Lì sono stato molto fortunato di poter andare alla Warner Studios e lavorare con delle persone stupende e infatti, cogliendo l’occasione, vorrei ringraziare Michał Fojcik sound designer, Teonika Rożynek con cui spero davvero di lavorare nel prossimo film perché sono entusiasta delle musiche che ha fatto. Ringrazio inoltre il Polish Film Institute per il supporto che ha dato al mio film.
E quando finisce la frenesia legata alla promozione di questo film quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Ho un soggetto che ho scritto da solo e anche la sceneggiatura vorrei scriverla da solo, si tratta di una storia molto personale e difficile da fare per me in questo momento perché legata ad una malattia. Non sono sicuro di essere pronto a farlo adesso. E ce n’è un’altra storia che, diciamo, è un sogno di sempre, un adattamento di un romanzo giapponese degli anni sessanta di Yasunari Kawabata che si chiama “La casa delle belle addormentate”.