Lo Cascio, l’attore interpreta e non giudica

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Luigi Lo Cascio (nato nel 1967) è uno dei migliori attori contemporanei italiani, che negli anni è diventato sinonimo di qualità e intransigenza nel cinema. Vincitore di due “Oscar italiani”, ovvero i premi David di Donatello (per il suo debutto come attore “Cento passi” [2000] e “Il traditore” [2019]) e la Coppa Volpi (per “Luce dei miei occhi”, 2001). Nel 2012 ha esordito come regista del film  “La città ideale”, in cui ha anche interpretato il ruolo principale. Il suo primo romanzo “Per ogni ricordo un fiore” è stato pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli nel 2018. La sua attività creativa spazia dal cinema al teatro, che di fatto è il suo primo amore ed è stato proprio per il teatro che ha abbandonato i suoi studi in medicina. Il suo ruolo più importante, cioè la parte del coraggioso giornalista che combatte contro la mafia, Peppino Impastato, gli è arrivato in realtà grazie a una fortunata coincidenza. Nel tempo libero legge. Uno dei suoi libri preferiti è l’ultimo romanzo di Witold Gombrowicz, “Cosmo”. È uno dei protagonsti principali di “Lacci”, film diretto da Daniele Luchetti (2020), che il 2 settembre apre la 77^ edizione della Mostra d’ Arte Cinematografica di Venezia.

Lei all’inizio voleva diventare medico?

Lo Cascio, foto: Pino Le Per

Io in realtà non avevo mai pensato di fare l’attore. Alla fine del liceo sono diventato più estroverso. Con i miei compagni di scuola facevo delle esibizioni per strada, ad esempio il jukebox vivente. Quando le macchine si fermavano, noi facevamo delle canzoncine con le chitarre e i bonghi. Passavamo con un cappellino, chiedevamo dei soldi. Tutto parte come forma di puro divertimento. All’inizio mi dedicai ai miei studi di medicina, pensavo quella fossa la mia vocazione. Poi nel 1986 con un gruppo di amici con il quale una volta facevo atletica leggera abbiamo deciso di vedere le gare di atletica leggera in tutta Europa. Stiamo stati a Stoccarda, Helsinki. Siccome non avevamo tanti soldi facevamo questi spettacolini di piazza. Una sorta di teatro di strada, pantomime giocose. Proprio in quelle occasioni vedevo e sentivo che mi piaceva avere davanti un pubblico. Ho cominciato a chiedermi se stavo facendo la giusta cosa studiando medicina. Mio padre era chimico e ci teneva molto, anche da parte di mia madre c’erano dei medici in famiglia. E all’università andavo bene.

La svolta è stata lavorare con Federico Tiezzi e il suo gruppo “I Magazzini Criminali”, un movimento artistico molto importante negli anni Ottanta. Tiezzi continua ad essere uno dei migliori in Italia. All’epoca stava preparando la sua versione di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett per il Teatro Stabile di Palermo. Si trattava di fare una piccola parte di un ragazzo, che quasi tutti i registi di solito tagliano. Lo ho incontrato e mi ha preso. In questo modo, anche facendo la parte dell’ultima ruota del carro, ho avuto la possibilità di fare una tournee teatrale molto seria. Ero ancora studente di medicina ma il teatro mi ha fatto perdere la testa. Di quel mondo mi piaceva tutto: le prove, il lavoro sul testo, il poter osservare dietro le quinte attori molto bravi, fino alle esibizioni dal vivo in vari teatri d’Italia. Dopo questa esperienza indimenticabile pensai: solo se entro all’Accademia d’Arte Drammatica lascio la facoltà di medicina di Palermo. Sapevo che non potevo gettare tutto subito per un futuro cosi incerto. Ho lasciato decidere un po’ il destino.

“La città ideale” L. Lo Cascio

Il cinema quindi non era il suo primo amore?

All’inizio mi interessava solo il teatro. Il cinema era assente dalla mia vita. In famiglia non avevamo l’abitudine di andare al cinema, né di guardare i film dei grandi maestri. E in realtà perfino durante l’Accademia, in tre anni di studi a Roma, sono stato al cinema forse 3 o 4 volte. Fabrizio Gifuni, bravissimo attore italiano e mio compagno di stanza all’ epoca – con il quale poi abbiamo fatto insieme “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana – mi obbligava ad andare al cinema, a guardare i film! Mi invitava a cena e mi diceva: “Adesso tu non esci, se non vedi qualche capolavoro di Kubrick!”. Io ovviamente li guardavo ma con scarsa attenzione. Era la presunzione di un ragazzo innamorato del teatro, che pensava che il cinema fosse un’arte minore. In quei tempi non avevo ancora capito la bellezza e l’importanza del cinema. Confrontavo tutto sul piano testuale. È chiaro che Shakespeare o la tragedia greca, Pirandello o Becket, sono imparagonabili come grandezza, spessore dei testi, rispetto a qualunque sceneggiatura. Dai testi teatrali vengono fuori infinite rappresentazioni. Con il film invece… già se fai un remake, spesso esce male. Come se qualcosa venisse rovinato, conta solo l’originale. Ma quel mio approccio d’allora oggi mi fa sorridere.

Tutto cambia con “I cento passi”.

Per sette anni dall’inizio degli studi teatrali non avevo fatto mai niente con il cinema. Nessun provino o book fotografico. Nessun agente cinematografico. È stata pura fortuna. L’attore che fa mio padre ne “I cento passi”, Luigi Maria Burruano, è mio zio nella vita. O meglio era, perché purtroppo ci ha lasciati un paio di anni fa. Era un grandissimo attore e ne “I cento passi” dà un saggio della sua bravura. Stavano per incominciare le riprese, mancava un mese e mezzo. E lui chiese una sera a cena a Marco Tullio Giordana: “Ma chi farà Peppino Impastato?”. E il regista rispose: “Guarda, non l’ho ancora trovato”. Mio zio in quel momento replicò: “Ho un nipote che fa l’attore…”. Giordana rispose: “Stiamo per fare un film sulla mafia e tu mi vuoi parlare di un tuo famigliare? Vuoi inserire dentro qualcuno del tuo clan”. Il regista prese un po’ in giro mio zio. Ma io poi mi presentai, e lui vide che c’era una somiglianza tra me e Impastato. Io gli confessai subito: “Sono onorato d’essere preso in considerazione per questa parte. Ma metto le mani avanti, io non ho mai visto i classici di Pasolini o Antonioni, Herzog o Welles. So i cognomi dei registi, ma a dire il vero non conosco il loro cinema”. Giordana invece di arrabbiarsi rimase stupito: “veramente non li conosci? devi ancora vederli? Che fortuna! Hai dei continenti da esplorare”. Facendo “I cento passi” ho incominciato ad amare il cinema dal di dentro, facendolo. Da quel punto mi è scattata la sete di conoscere e ho fatto delle grandi immersioni: tutto Herzog, tutto Kubrick, La scuola del cinema russa… Incominciavo a capire cosa mi ero perso fino a quel momento.

Seconde Lei perché Marco Tullio Giordana l’ha scelta per la parte?

Non credo di aver fatto bene il provino, avevo pochissima esperienza. Non avevo mai recitato davanti ad una macchina da presa, venivo dal teatro. Ma Giordana mi disse: “Sai perché ho preso proprio te? Quando parlavamo dei libri di Majakovskij e Pasolini, a certi riferimenti letterari importanti in generale, ma anche per il film, tu li conoscevi tutti”. Gli piaceva che io avessi letto gli stessi libri di Peppino. E qui i libri, che una volta potevano essere un ostacolo al mio approccio al cinema, divennero il mio punto di forza.

Dopo un film così forte come “I cento passi”, non potevo immaginare che potesse interpretare il ruolo di un mafioso…

Il cinema crea nello spettatore una suggestione molto forte, per cui se tu come attore sei stato credibile come un certo tipo di personaggio, sembra impossibile che poi passi dall’altra parte. Se hai interpretato Impastato, come fai a fare la parte del mafioso? Ma nel mondo del teatro ad esempio questo ragionamento cosi lineare non funziona in tal modo. C’erano tempi in cui Salvo Randone e Vittorio Gassman facevano a teatro Otello e Iago. Tutte le sere si scambiavano ruolo. A teatro è tollerabile che tu passi da una parte all’altra. Un giorno sei il male assoluto e l’indomani incarni Romeo e Riccardo Terzo. Nel cinema lo spettatore dimentica più facilmente che tutto questo è un gioco di rappresentazione e fa più fatica ad accettarti in un ruolo diverso da quello precedente.

Incarnando Peppino Impastato sai bene che stai rappresentando un certo modo di stare al mondo, una certa etica. Ed io sono stato sicuramente identificato con questo personaggio, con un certo spessore morale. Anche altri registi, oltre a Marco Tullio Giordana, mi hanno scelto proprio perché mi hanno identificato con questo tipo di umanità, alla quale si attribuisce il coraggio e un senso di giustizia. Basta pensare a “Noi credevamo” di Mario Martone. Ma anche se non fossi stato Contorno, cioè un mafioso che era diventato collaboratore di giustizia, avrei interpretato questo personaggio unito alla mafia con la stessa attenzione e lo stesso – tra virgolette – piacere. Da un punto di vista della pura recitazione, l’attore che è portato a trasformarsi, alla metamorfosi, non può e non deve dare un giudizio morale sul personaggio che sta interpretando. Perché potrebbe complicare la recitazione. Se io pensassi “Sì ma in fondo Contorno è un assassino” mi metterei in contrapposizione con me stesso, con il personaggio che interpreto. Su qualunque personaggio, anche il più detestabile, nel momento in cui viene interpretato dall’attore, c’è una sospensione del giudizio morale. Nel personaggio di Totuccio Contorno era molto attraente per me il fatto che lui parlasse nel dialetto palermitano.

Ma è anche giusto sottolineare che ne “Il traditore” non interpreto il ruolo del classico membro di Cosa nostra, ma colui che attacca le strutture mafiose collaborando con il sistema giudiziario. Ad ogni modo, ci sono alcune connessioni tra il film di Marco Tullio Giordana e Marco Bellocchio, in entrambi i film, ad esempio, spunta la figura di Gaetano Badalamenti.

“Il traditore” M. Bellocchio

Il dialetto è un aspetto molto importante del film di Bellocchio. Una delle sequenze più importanti de “Il traditore” è legata all’interrogatorio di Contorno nell’aula bunker. Gli avvocati in sala non sono in grado di capire quello che sta dicendo.

Nel film parlo in un dialetto molto particolare, che parlano solo i palermitani. Già i catanesi o gli altri siciliani non lo sanno parlare bene. Non è un dialetto che si possa studiare, o lo sai fare o no. Bellocchio mi ha visto sempre in film e spettacoli teatrali in cui parlavo italiano. Così mi ha fatto un provino; ci teneva molto all’autenticità della lingua e voleva controllare se io avessi la conoscenza di questa forma di lingua che ti porta immediatamente verso il popolo, verso un certo modo di vivere, di considerare le cose. Dopo il provino si è reso conto che parlavo questo dialetto con naturalezza e mi ha anche affidato i testi, certe volte io stesso li traducevo in un palermitano stretto. Una volta che mi ha scelto è poi stato molto aperto perché mi ha lasciato fare. Cosi c’era anche spazio per un po’ di improvvisazione, perché un dialetto è fatto anche di intercalari, frasi ripetitive, modi di dire molto particolari, giri di parole. Ad esempio la scena della vendita della macchina in America era molto improvvisata, molto palermitana nel senso dell’umorismo e mi fa piacere che fa ridere il pubblico in tutto il mondo.

I film sulla mafia sono senza dubbio una delle specialità della cinematografia italiana. Basta pensare alla serie dei gialli politici basati sui libri di Leonardo Sciascia e realizzati poi da grandi registi come Elio Petri o Francesco Rosi. O ai film di e con Michele Placido negli anni 90. Cosa c’è in questo tema che attira costantemente l’attenzione dei cineasti?

I racconti sulla mafia sono sempre dei racconti sulla storia d’Italia. Specialmente da quando si è capito che non è un problema di una regione, è un tema in cui si gioca il destino di una nazione. I rapporti della mafia siciliana sono sia locali che mondiali, si intrecciano con la storia politica ed economica del mondo (Stati Uniti, America Latina, etc.). E come dimostra non solo il cinema italiano, ma anche quello statunitense, quelle sulla mafia sono sempre storie estreme, dove i personaggi sono veramente shakespeariani (gli stessi temi: onore, tradimento, delitto…). Ci sono delitti che raggiungono una violenza efferata ma, allo stesso tempo, vengono preservati dei valori ritenuti “sacri”. Tutto ciò fa assumere a queste storie qualcosa che a che fare con il mito, con la grande tradizione del racconto epico. Diventano interessanti sia dal punto di vista storico che da quello espressivo.

Con Bellocchio aveva già collaborato nel film “Buongiorno, notte” (2003). Il regista è cambiato in questo periodo?

Mi ha molto colpito rivederlo dopo tutti questi anni, perché mi è sembrato come un ragazzo ringiovanito. La curiosità per un mondo che lui non conosceva, cosa che ha dichiarato apertamente – Bellocchio non conosceva la Sicilia, la lingua, le storie sulla mafia. Questo desiderio di scoperta faceva sì che lui fosse molto vivace, sul set stava sempre in piedi per esempio. Ho questo ricordo di lui in continuo movimento, che si sposta dalla macchina da presa fino gli attori. Una febbre artistica. In “Buongiorno, notte” lo ricordo più seduto, calmo, concentrato sulla sceneggiatura. Scriveva, pensava. Invece ora l’ho ritrovato più dinamico, come preso da una danza. Si è lasciato trasportare da questo strano entusiasmo che avvolge questa incredibile storia.

Se potesse scegliere di lavorare con un regista del passato, chi sceglierebbe?

È difficile citarne soltanto uno. Elio Petri è un regista con il quale mi sarebbe piaciuto fare dei film. Ovviamente anche Pier Paolo Pasolini. E del cinema americano invece sarebbe stato un sogno poter lavorare con Stanley Kubrick e fare un film come “Eyes Wide Shut”, nella parte fatta da Tom Cruise.

“Lacci” D. Luchetti