La prima impressione: perché qua è così buio? La seconda: non mi basta! La terza: quando finiremo con l’agiografia?
Ma iniziamo con ordine. Il Museo Nazionale di Varsavia è, da quando ho memoria, un po’ come un malato in convalescenza. I gestori ogni tanto si svegliano per organizzare una mostra molto importante che raduna tantissime persone: ogni azione di questo genere serve a diagnosticare l’attuale stato di salute della struttura. Il pubblico può confrontarsi con dei quadri di Vecchi Maestri oppure con opere generiche come in un manuale di storia dell’arte del periodo del PRL (“Da Manet a Gaguin”). È difficile non notare che il museo si concentri sui classici (visto che saranno tanti a volerli guardare) ben descritti (vi sarà un problema minimo con la creazione del concetto della mostra) e circondati da un’aura palpabile di opere sacre. Il museo non è tanto propenso a mettere in mostra le opere postbelliche. Le folle che vanno in pellegrinaggio in questo tempio dell’arte ne escono deluse perché anche stavolta non c’è stata alcuna epifania.
Una situazione simile avviene nel caso della mostra di Mark Rothko. Dopo la prima campagna pubblicitaria, condotta con successo ed efficienza da tanti anni, che ha messo pure in evidenza la drammatica superficialità dei media polacchi (“come si trasportano i quadri più preziosi del mondo?”), gli spettatori polacchi finalmente possono apprezzare 17 tele e una manciata di cimeli personali esposti in alcune sale buie che fanno pensare a un portico della chiesa dove nella luce di rare lampadine si anneriscono capolavori impolverati. Con sottofondo di musiche di Mozart ci sediamo sulle panchine messe davanti ai quadri. Tutto questo, assieme alle luci soffuse, accentua il carattere teatrale della mostra. Tuttavia l’atmosfera solenne della cappella e del mausoleo sembra essere completamente artefatta.
Adesso è facile capire perché Dorota Jarecka ha iniziato la sua recensione della mostra con le parole “Ammetto la mia ignoranza: solo quando ho aperto il catalogo della mostra di Mark Rothko inaugurata ieri al Museo Nazionale di Varsavia, ho capito ciò che per molti è sicuramente una cosa ovvia come la cecità di Francesco Goya o la cattiveria di Caravaggio. Questo artista si è suicidato. Si è tagliato le vene nel 1970 nella sua bottega di New York”.
Il concetto agiografico della mostra non ci permette di omettere questo fatto e passare alle opere. Rimane solo un interrogativo su questa forzata intimità, ovvero se “avvicinare Rothko come un essere umano” abbia un senso. Se vale davvero la pena costruire una narrazione pittorica astratta, servendosi dell’estetica dei nomi propri che assimila l’osservazione delle opere alla lettura di un romanzo poliziesco, che tende sempre a scoprire un nome, quello dell’assassino.
Prendiamo per un momento questa teatralizzazione come buona. In fondo lo stesso Rothko diceva che “il silenzio – il cui corrispondente visuale è il buio – è più adatto”. Supponiamo allora che abbiamo a che fare con un silenzio vivente, esattamente come da John Cage, dove la mancanza dei suoni significa che sentiamo almeno il doppio ritmo: il suono della respirazione e l’accompagnamento sommesso del battito cardiaco. Il silenzio pieno di vita. In questo silenzio appaiono le immagini che rappresentano la sfida, la richiesta e forse la promessa. Rothko attraverso il gioco con le nostre abitudini di percezione (cosa è il quadro, la macchia e lo spazio?) stimola fortemente i nostri corpi. Li espone alle manifestazioni drammatiche dell’emozione e del silenzio. Le tendenze mistiche presenti in forme distorte e le loro alterazioni potrebbero derivare dal surrealismo di Bataille. Egli tratta la distorsione, similmente come avviene nell’arte primitiva, come l’ingresso nella zona del sacro piena di violenza nascosta e di combattimenti. Sfida le nostre abitudini estetiche e il nostro lessico. Offende le nostre aspettative verso la pittura, la maestria e la rappresentazione. L’artista può essere inteso affermativamente come una prova per andare oltre il senso comune, la logica del significato nel gioco delle forze oppure la promessa di una nuova vita. La riproducibilità di questo gesto nelle immagini successive, compulsiva come da tutti i modernisti, è una forma di lotta con tutta la tradizione della pittura, che si stringe nella cornice non dipinta e nella nostra visione. Rothko in quel caso avrebbe voluto affermare una differenza (come Nietsche); di tutto questo scrive Lukasz Kiepuszewski nel suo catalogo descrivendo inoltre le sue influenze nell’arte polacca.
Solo che la ribellione di Rothko, sia politica che pittorica, è piuttosto dubbia. Non a caso le sue opere sono diventate dei simboli del lusso. La sua ribellione nel dipinto si esprime in una semplice sostituzione del cliché con un iperbolico linguaggio visivo che chiude la pittura piuttosto che formulare nuove opportunità. Rosalind E. Krauss chiese una volta, con la sua tipica intuizione: “La superiorità benevola è semplicemente una forma di auto-riconoscimento da parte della borghesia. Basti guardare la letteratura sugli yuppies. Ma anche questo non aiuta a capire una cosa che è molto più interessante e preoccupante e che riguarda Rothko come artista. Vale a dire: come questa banale sublimità abbia potuto nello stesso momento portare allo splendore della morte (1950) e all’evacuazione clinica nel prossimo (1965)?”
Questo è un dramma come quelli di Tonio Kröger, un borghese incapace di liberarsi dalla sua condizione sociale, che ci conduce direttamente a un momento in cui i girasoli di Van Gogh appesi al muro indicano la presenza del water; al momento in cui il valore di un’opera viene stabilito ai sensi di un contratto bilaterale tra venditore e acquirente che riguarda la domanda e l’offerta per un bene di lusso. L’unica cosa che possiamo fare tranne accettare l’acquisto è… negoziare.
La mostra al Museo Nazionale prende parte in questo processo in cui vengono fissati i prezzi attraverso una grande preoccupazione per il ristabilimento di un contatto diretto con il gesto originale del genio, attraverso la narrazione agiografica, la manipolazione di termini di percezione dell’immagine e la ricostruzione critica che sistematicamente omette ogni controversia nella percezione dei lavori di Rothko.
Mark Rothko. Quadri della National Gallery of Art di Washington
Il 7 giugno – il primo settembre 2013, il Museo Nazionale di Varsavia