Fin dall’inizio, Andrzej Wajda sapeva che il suo cinema sarebbe dovuto essere polacco. Oggi si è giunti a parlare di superare le frontiere, di fare co-produzioni europee, dell’universalismo, invece la generazione dei grandi maestri degli anni ’60 era legata alle proprie radici. Bergman si trovava meglio in Svezia circondato dagli attori del suo teatro, non si può non immaginare Fellini non immerso nella realtà italiana; oppure Kurosawa (maestro a cui Wajda si è ispirato nei suoi lavori artistici) senza la tradizione giapponese? Tarkowski senza implicazioni russe? Resnais senza la base francese? I vecchi maestri dell’universalità imparavano nei propri cortili, dalla tradizione spirituale delle proprie nazioni; è per questo che il cinema di Wajda ha messo le radici nella realtà polacca, raccontando delle vicissitudini, della libertà e di tutte le persone impigliate nella storia nazionale e quasi ogni suo film è una prova per descrivere l’identità dei polacchi.
Wajda non scappava dai temi difficili, ha sfruttato ogni occasione per raccontare della realtà circostante e riempire sullo schermo le macchie bianche della storia polacca. Gli anni ’70 sono per Wajda anni eccezionali, realizza almeno otto film e la metà di essi era vicina a un capolavoro. Innanzitutto “Człowiek z marmuru”, un grande affresco politico che denuncia la falsità del comunismo. Wajda pensava a questo tema già agli inizi degli anni ’60, quando Jerzy Bossak gli aveva raccontato la storia di un muratore stacanovista ai tempi di Stalin, capo di un grande cantiere, ma successivamente buttato giù dal suo piedistallo e per questo si era ribellato. Wajda aveva pensato già in quegli anni che avrebbe dovuto essere una donna a scoprire tutta la verità su Birkut, per questo sceglie Agnieszka (Krystyna Janda), chiamata così perché il regista conosceva Agnieszka Osiecka che studiava all’Accademia di Łódż, e prese da lei ispirazione. Poi però il film non fu più girato perché vietato dalla censura. Wajda sosteneva che le parole erano pericolose, divulgavano l’ideologia ed erano le prime a cadere sotto censura. E’ forse per questo motivo che il cinema polacco è, prima di tutto, un cinema dell’immagine. Allora, come si può censurare Cybulski che muore lentamente e silenziosamente in una discarica?
Wajda del suo cinema non fa altro che colorare tutte le macchie bianche lasciate dalla Storia. E’ un mezzo che viene usato da lui per informare e denunciare tutti gli orrori che da sempre hanno fatto parte della storia polacca ma che sono sconosciuti alla gente, poiché sono stati sempre nascosti. Scrive delle pagine di Storia che andrebbero aggiunte ai nostri libri scolastici, questo è il suo scopo, Wajda ha scelto di diventare regista proprio per questo. E’ diventato un paladino della giustizia, andando contro la politica e le autorità, che molto spesso gli avevano vietato la pubblicazione dei suoi film. Ha combattuto, proprio come i suoi protagonisti, una guerra senza armi, senza pistole o bombe, ma con la cinepresa e la pellicola, a volte perdendola ma nella grande maggioranza vincendola, in modo da riuscire a pubblicare i suoi film e urlare la verità, bella o brutta che sia, in tutto il mondo. Ha ricevuto spesso molte critiche sul suo modo di narrare la storia, sui suoi personaggi, sulla sua esagerazione, sulla ossessione continua della morte. Ma credo che siano proprio queste caratteristiche che lo distinguono da tutti gli altri, rendendolo unico nel suo genere. Perché vale la pena ricordare Wajda? C’è una caratteristica che gli appartiene, è quella nostalgia che mi ha subito colpito guardando per caso qualche suo film e che si è consolidata man mano che mi avvicinavo di più alla sua sfera, attraverso la traduzione dei testi, la visione dei film. Wajda non fa nulla senza consapevolezza e nulla in superficie. Tutto ha un suo senso di esistere, una logica e un posto preciso. Anche il gesto minimo compiuto è unico e ha valore. All’accademia ho imparato una cosa importante, scrive l’autore, a osservare il mondo che mi circonda. Come mi ha fatto notare Silvia Parlagreco, scrittrice nonché traduttrice di alcuni dei testi autografi di Wajda, è una frase con cui siamo cresciuti tutti, ma non so a quanti di noi sia sembrato troppo ovvio, troppo semplice, perché valesse la pena impararlo.