Ce ne vuole di intuizione per guardare una locomotiva a vapore e concepire una macchina per il caffè. Eppure proprio questo ha fatto il torinese Pier Teresio Arduino che, dopo aver prestato servizio militare nel genio ferrovieri, nel 1910 brevetta la Victoria Arduino, ovvero il primo successo globale nella storia dell’espresso. Questa macchina, assieme ad altre duecento, è esposta al Mumac, Museo delle macchine per caffè, di Binasco, vicino a Milano. La maggior parte è proprietà di Enrico Maltoni, il più importante collezionista ed esperto italiano del settore.
Una macchina futurista
Quella di Arduino non era la prima macchina per fare l’espresso in assoluto, ci avevano già provato un altro torinese, Angelo Moriondo, che aveva presentato una macchina per fare il caffè veloce nel 1884, e il milanese Luigi Bezzera, che aveva brevettato una macchina nel 1901 e l’anno dopo ceduto la licenza a Desiderio Pavoni, quest’ultimo con bottega a Milano, in via Parini. Ma sarà la Victoria Arduino (1910), con i suoi meccanismi che ricalcano quelli della caldaia di una locomotiva, a entrare trionfalmente nei bar di mezza Italia. Si trattava di apparecchi monumentali, di rame e ottone, con elementi decorativi. Le vittorie, i leoni e tutto lo zoo che campeggiava sulla sommità di questi aggeggi erano cesellati a mano, autentiche mini opere d’arte. Arduino poi aveva uno spiccato senso dello spettacolo e quindi brevetta nella sua macchina un dispositivo che chiama «di accensione dei liquidi alcolizzati». In pratica, quando il barista faceva il punch, incendiava i vapori dell’alcol al momento di servirlo al cliente. Non serviva a nulla, ma era una bellezza che sollevava gridolini d’entusiasmo.
La pubblicità per la Victoria Arduino viene disegnata da uno dei più noti cartellonisti dell’epoca, il livornese Leonetto Cappiello che nel 1922 è il primo a legare in un manifesto la macchina per l’espresso con il treno espresso. Siamo in epoca futurista, in un periodo in cui la velocità è ritenuta un valore ed è quindi perfettamente al passo con i tempi l’uomo che si sporge dal treno in corsa e ghermisce al volo una tazzina di caffè appena fatto.
Attenzione, però: se noi oggi bevessimo il caffè uscito da una di tali apparecchi, lo troveremmo disgustoso. Ai nostri giorni le macchine funzionano con l’acqua a pressione, mentre al tempo utilizzavano il vapore e il risultato era un caffè molto scuro e molto amaro, che a stento riconosceremmo come un espresso.
Si apre l’epoca dell’espresso crema
Per arrivare all’espresso crema, ovvero al caffè con la schiumetta che tanto piace agli italiani, e non solo, bisogna attendere un bel po’ d’anni, ovvero fino al 1948 quando il barista milanese Achille Gaggia mette a punto per il suo locale di viale Premuda la prima macchina in grado di fare l’espresso crema. Si apre una nuova epoca.
Nel medesimo anno la Pavoni si affida al genio di Giò Ponti. Questi riprende un’idea che qualcuno aveva già avuto, ma ancora non si era diffusa: rovesciare la caldaia dell’acqua. Le macchine da verticali ora diventano orizzontali. E così resteranno. Di nuovo Pavoni chiede a Bruno Munari di progettare una macchina. Nel 1956 dalla matita del designer esce il modello subito ribattezzato diamante per via delle sfaccettature. L’apparecchio è composto da elementi di lamierino colorato, tinte e dimensioni possono essere cambiate in base alle richieste del cliente.
La Faema, dopo gli esordi in accoppiata con Gaggia, ha scelto di camminare da sola e nel 1961 produce un modello destinato a cambiare le sorti del caffè espresso. Si tratta della E 61, dove il numero rappresenta l’anno ed “e” per eclissi (il 15 febbraio c’era stata un’eclissi totale di sole). È la prima macchina a pompa, ovvero utilizza l’acqua attingendola direttamente dai tubi, senza tenerla in una cisterna. Inoltre imbibisce d’acqua la polvere di caffè prima che sia attraversata dall’acqua bollente ad alta pressione. In questo modo si estrae dalla miscela una maggior quantità di aromi. La E 61 ha avuto una diffusione enorme, tanto che ancor oggi non è difficile riconoscerne qualcuna nei bar italiani, religiosamente conservata come una reliquia.
La mano degli architetti
L’anno dopo, siamo nel 1962, la Cimbali Pitagora disegnata dai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni vince il Compasso d’oro, massimo riconoscimento per il design (e rimarrà l’unica macchina da bar ad aver ottenuto questo riconoscimento, che andrà invece nel 1979 alla caffettiera casalinga della Alessi, progettata dal tedesco Richard Sapper). Ormai la produzione è definitivamente passata da artigianale a industriale, e si vede: le macchine sono più semplici e lineari, in modo da poter essere assemblate a moduli. La produzione sempre più standardizzata inaridisce un po’ le innovazioni del design, con qualche significativa eccezione, come la Faema progettata da Giorgio Giugiaro nel 1991, uno dei modelli più recenti esposti in questa affascinante cavalcata nella storia delle macchine per il caffè.