“Non è un Paese per i giovani”: da tempo questa frase è diventata quasi uno slogan, un motto che i giovani di oggi amano urlare in ogni parte del mondo. Una crisi che ormai non riguarda più solo l’ambito economico ma che ha intaccato anche la psiche dei giovani, alle prese con l’ardua ricerca di se stessi e soprattutto del lavoro. È il lavoro che definisce l’uomo, completandolo e dandogli uno scopo, una meta che apre il cammino verso la ricerca. Ed è proprio questo che manca, mettendo in crisi una gioventù che tempo fa avrebbe potuto scegliere quel tipo di lavoro che più le aggradava, ora non più, si deve adeguare. Giovani sempre più cupi, più fragili, più soli, senza ideali, senza genitori, “senza speranze”. Cercano di adeguarsi ma non ci riescono. E non ci riescono nemmeno i “vecchi”, dai quali continuamente sento pronunciare un unico aggettivo per definire questa gioventù: bruciata. Siamo tornati agli anni ’50, quando il mitico James Dean incarnava il perfetto modello di ribelle, nel film “Rebel without a cause” diretto da Nicholas Ray, film che ha contraddistinto quella generazione, e non solo.
Allora mi sono chiesta, come mai i vecchi facciano sempre riferimento a quegli anni ’50 e non magari ai ’70 o al 2000? Le mie ricerche iniziali hanno portato ad una chiara risposta, che vede comparire i primi segnali di questo disagio giovanile proprio negli anni ’50, fino a protrarsi, tra alti e bassi, ai giorni nostri. Sociologi e mass media cominciarono, infatti, ad analizzare questo fenomeno, individuando le cause principali nella trasformazione dei costumi, nella crescita del benessere, e, soprattutto, in questo profondo disorientamento morale e sociale dovuto alla mancanza di modelli forti e autorevoli. Come ben sappiamo, la storia si ripete nel tempo, cambiando solo nome e luogo; così quella gioventù bruciata presente negli anni ’50 in America si era insediata anche in tutta Europa, attraendo continuamente gli storici e diventando il soggetto preferito dei cineasti e degli intellettuali.
Sono rimasta affascinata in modo particolare da due personaggi di spicco in quegli anni, che incarnavano quel modello di gioventù, descrivendo e documentando i cambiamenti e le trasformazioni morali che avevano caratterizzato loro stessi e la società: Pier Paolo Pasolini (1922-1975) scrittore, poeta e regista italiano, e Marek Hłasko (1934-1969) scrittore e sceneggiatore polacco. Due pionieri della generazione degli anni ’50, due miti che avevano molto in comune, non solo perché erano anarchici e provocatori, ma soprattutto perché andavano contro la mentalità bigotta di quel tempo, denunciando i pregiudizi e le ipocrisie radicate nei confronti della gioventù, che in quegli anni iniziava a decadere, o semplicemente a cambiare violentemente, adattandosi alla nuova società. Entrambi sedotti dalla figura del poeta maledetto, col quale spesso si identificavano menzionandolo pubblicamente nelle loro opere, le quali avevano come unico protagonista questa gioventù bruciata dal fuoco delle due guerre mondiali, da un regime che aveva travolto le loro anime costrette a una ribellione che spesso sfociava nel sangue. Una generazione che iniziava a cambiare moralmente, ad assaporare apertamente nuove culture, nuovi gusti sessuali, nuove ideologie che fino ad allora erano tabù e facevano scandalo.
Pasolini riporta tutto ciò in “Ragazzi di vita” (1956), allontanando la vergogna tipica di quegli anni, denunciando in modo cinico le violenze tragiche e silenziose che accadevano a ragazzi poco più che ventenni, nei quali si immedesimava. Quei bei ventenni che troviamo in “Piękni dwudziestoletni” di Marek Hłasko (1966), dove fuoriesce la sua vera essenza: un giovane amante della libertà, intollerante alle convenzioni e alle regole e mosso da un profondo senso di giustizia, come Pasolini.
Hłasko nei suoi “Racconti” scritti tra gli anni ’50 e ’60 esprime un’angoscia estenuante che provava nel vedere le macerie materiali e morali di una Varsavia degradata. La stessa straniante angoscia che provava Pasolini nel vedere una Roma scabrosa, raccontando la fame e la delinquenza che si nascondevano dietro le borgate romane in “Una vita violenta” (1959).
Molti dei loro scritti sono poi diventati film, che, in quegli anni, si scagliavano contro la censura e davano molto scalpore, arrivando ad essere definiti “troppo espliciti”. Dobbiamo guardare i due film da vicino, poiché credo che grazie ad essi i nostri occhi riuscirebbero a comprendere la realtà cruda in cui viveva la gioventù di quegli anni. Cerchiamo di mettere a confronto dei film come “Ósmy dzień tygodnia” scritto da Hłasko e diretto da A. Ford (1957) con “Accattone”, girato nel 1961 da Pasolini. Film che danno una completa visione della Polonia e dell’Italia a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, in modo da poter paragonare e illustrare due nazioni così diverse fra loro ma accomunate da uno stesso protagonista, vittima innocente degli errori della società.
Bisogna raffrontare le due nazioni sotto il punto di vista storico, politico ed economico cosicché si possa tracciare un profilo più ampio e profondo che vada a rialzare quella coltre invisibile sotto cui si celano le cause reali che hanno bruciato la gioventù, trascinando le ceneri fino ai nostri giorni.
Sarà forse il fascino irresistibile del cinema e dei miti degli anni ’50 che ha ispirato la mia tesi specialistica “Gli eroi di Andrzej Wajda”, con la quale mi sono laureata, e che mi spinge tuttora a voler rivivere il fervore di quegli anni, mettendo però al centro del mio lavoro la gioventù, quella comune e periferica, rimasta sempre in disparte, ma dalla quale sono nati i miti che, secondo il ministro italiano dell’istruzione Dario Franceschini, dovrebbero essere presi in considerazione come modelli ai quali i giovani devono ispirarsi. Il ministro ha, infatti, emanato recentemente un decreto per promuovere le iniziative culturali, ispirandosi proprio a Pier Paolo Pasolini usando queste parole riportate dal giornalista Aldo Grasso nel quotidiano “Corriere della Sera”, pubblicato il 30 gennaio 2015: “Gli italiani hanno il dovere di ricordare Pasolini e di trasmettere alle nuove generazioni l’attualità del suo messaggio di ricerca e denuncia.”
Questa frase si addice perfettamente alla figura di Marek Hłasko nel pantheon degli scrittori della letteratura polacca nel dopoguerra, che racchiude in sè la difficoltà di ritrovarsi in questo mondo imperfetto e così diverso dalle proprie aspettative.