Da cinematografaro italiano ricevo sempre le stesse domande da parte degli addetti ai lavori di tutto il mondo: “chi è il nuovo De Sica? chi è il nuovo Rossellini? chi è il nuovo Antonioni?”
A volte mi piacerebbe rispondere così: “il nuovo De Sica ha capito che fare cinema in Italia è solo una questione di politica e di raccomandazioni, al posto di partire per Roma ha deciso di rimanere al paesello, adesso fa il postino, è felice, ha scritto dei romanzi ma li tiene chiusi nel cassetto, fa l’amore con la sua fidanzata e poi il sabato pomeriggio vanno al cinema, l’unico rimasto aperto di tutta la zona, guardano un bel film d’azione americano e poi vanno a mangiare la pizza.”
Invece cerco sempre di dare qualche speranza in più, rispondendo che la situazione è comunque difficile ma che qualcosa all’orizzonte c’è sempre, e che nell’arte non bisogna mai perdere l’ottimismo.
Per fortuna invece, adesso la risposta gli addetti ai lavori internazionali se la danno da soli. Perchè hanno tutti visto “La grande bellezza”, il film di Paolo Sorrentino partito da Cannes e arrivato all’Oscar come miglior film straniero nel 2014. Alla domanda “dov’è il cinema italiano?” la risposta più facile e sulla bocca di tutti, da Los Angeles a Kuala Lumpur, è sempre la stessa: “La grande bellezza”.
Dobbiamo dare indubbio merito al film di Sorrentino per questo, ma la questione rimane, se non vogliamo fermarci alla superficie delle cose: c’è altro, oltre alla bellezza?
In Italia nel 2014 c’è stato il caso de “Il Capitale Umano” di Paolo Virzì, regista amatissimo dagli italiani ma un po’ sfortunato fino ad oggi per quanto riguarda il mercato internazionale. Forse i suoi film così perfettamente provinciali, esistenziali e generazionali fanno una certa fatica ad attecchire sul pubblico estero. Questo suo nuovo lavoro ha un fascino e un respiro certamente più global – è tratto da un libro di Stephen Amidon, sapientemente traslato dalla provincia americana alla Brianza – si avvale di un bellissimo cast, ed è stato il candidato tricolore alla corsa agli Oscar. Era molto difficile, quasi improbabile, che l’Italia dopo quindici anni di digiuno vincesse due statuette consecutive, e difatti “Il capitale umano” non e’ entrato neppure nella cinquina dei finalisti, questo più per questioni statistiche o diplomatiche che per il valore intrinseco del film. Ma sono felice che la sua visibilità internazionale stia facendo scoprire al pubblico europeo ed americano l’autore toscano di “Ovosodo” e “Caterina va in città”.
Il genere più amato dagli italiani, si sa, è la commedia, ma molto spesso è anche quello più difficile da esportare, perchè ogni paese ride a modo suo, e soprattutto dei propri tic e delle proprie miserie. Ma era da diverso tempo che non si presentava un pretendente così solido per il ruolo di esportatore italiano di risate all’estero, e sto parlando di “Smetto quando voglio”, il film di debutto nel lungometraggio del trentatreenne salerninano Sydney Sibilia, sceneggiatore e regista di questa storia a stampo universale di un gruppo di ricercatori universitari che si danno al crimine, vista la cronica mancanza di fondi per le loro ricerche. Gli americani l’avrebbero chiamato “La rivincita dei Nerds”, ma “Smetto quando voglio” possiede una sensibilità tutta sua che lo rende italiano fino al midollo. Sarebbe bello che dopo la parata internazionale dei festival, da Reykjavik a Londra, passando per gli Stati Uniti, ci fosse qualche distributore coraggioso che scommettesse sul fatto che il mondo ha voglia di ridere degli italiani al cinema, assieme a loro.
Infine, vorrei spezzare una lancia nei confronti di un certo tipo di cinema, o di produzione audiovisiva di stampo italico, e di cui troppo spesso ci si dimentica, ovvero la videoarte, che però sempre più spesso è la nostra rappresentate migliore nei festival cinematografici e negli istituti italiani di cultura nel mondo, e non solo nelle gallerie e nelle varie Biennali. Ormai a tutti gli effetti cineasti, i nuovi videoartisti italiani producono lavori che trovano la loro collocazione anche nei palinsesti televisivi e nei palmares internazionali, se è vero che un documentario come “Hometown-Mutonia” del collettivo artistico bolognese ZimmerFrei ha rappresentato il cinema italiano ai festival di Roma e Thessaloniki, che i ventisei minuti di “San Siro” di Yuri Ancarani, ritratto poetico del tempio calcistico di Milano, sono stati applauditi a Locarno e a Toronto, che “The Show MAS Go On” della videoartista giramondo Ra Di Martino ha iniziato dalla Mostra del Cinema di Venezia un percorso pluripremiato. Forse sono loro, con meno pressioni da parte del mercato e della politica, al giorno d’oggi i nostri cineasti più liberi, e quelli che andrebbero indicati come gli eredi diretti della tradizione del grande cinema d’arte italiano. Se il nuovo De Sica ha gettato la spugna, forse i nuovi Antonioni non si sono rassegnati a fare semplicemente i postini di cartoline dall’Italia.